Le gonfie vele del Maggio
di Francesco Lora
Il concerto inaugurale del Maggio Musicale Fiorentino ha affermato a tutta forza la ritrovata salute economica e il mai perduto entusiasmo artistico. Sono d’eccellenza le maestranze, la concertazione di Daniele Gatti e il canto di Sara Blanch: l’eccellenza che dagli stessi artisti s’era ascoltata anche nel recente Don Pasquale con inarrivabile regìa di Jonathan Miller.
FIRENZE, 17 marzo e 13 aprile 2024 – Il concerto inaugurale del Maggio Musicale Fiorentino numero 86, il 13 aprile, nell’Auditorium della fondazione in riva all’Arno, è stato un omaggio alla civiltà compositiva di casa a Vienna tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: formavano il programma Ecce sacerdos magnus di Anton Bruckner, con opportuna attenzione al bicentenario della nascita, poi il Salmo 13 op. 24 di Alexander Zemlinsky e soprattutto la Sinfonia n. 4 di Gustav Mahler. Ma un altro messaggio è passato davanti a tale impaginazione scientifica: ecco, infatti, il concerto col quale il Teatro del MMF ha affermato a tutta forza la ritrovata salute economica e il mai perduto – anzi straripante, qui e ora – entusiasmo artistico. Recensendo, da ciò deriva anche un avviso urgente ai musicofili che da almeno un quarto di secolo hanno imparato a prendersela comoda e comprare i biglietti all’ultimo momento («perché tanto, al Teatro del Maggio, la sala è sempre mezza vuota e il posto si trova sempre»): nossignori, quest’anno le vendite vanno a gonfie vele, e conviene spicciarsi, se non si vuole restar fuori; la caccia al biglietto è infatti già iniziata per Turandot diretta da Zubin Mehta, per i concerti sinfonici diretti da Riccardo Muti con i Wiener Philharmoniker e da Myung-Whun Chung con l’Orchestra del MMF, e ragionevolmente è attesa presto anche per Tosca diretta da Daniele Gatti.
Quel Gatti che è direttore musicale in scadenza appunto al MMF, ma anche direttore musicale designato alla sublime Staatskapelle di Dresda e direttore musicale in pectore consilii administrationis al Teatro alla Scala. Quel Gatti che forse mai quanto oggi è stato sotto i riflettori del notiziario. Quel Gatti che del concerto inaugurale in oggetto – esaurito fino all’ultimo strapunto: il pungiglione dell’«Ape musicale» è entrato per miracolo – fa due ore di ascolto privilegiato e senz’ombra veruna di prevedibilità. Egli anzitutto cede la direzione dell’antifona bruckneriana d’apertura al maestro del coro, Lorenzo Fratini, che dalla doppia cantoria trae la titanica prestanza della compagine a lui affidata: esibizione d’incisivo fraseggio, spaventosa escursione volumetrica, profusione di sfarzo timbrico; rischiano di finirvi sopraffatti persino i tre tellurici tromboni posti dal compositore a sottolineare taluni passi, e vi finisce comicamente sommerso l’organino elettrico che mal supplisce al grande strumento mancante dalla sala. Il medesimo discorso corale è proseguito, sotto la propria bacchetta, da Gatti, con Zemlinsky e il concorso e la rincorsa di tutta l’orchestra, metallicamente sfolgorante e armata dopo un quarantennio di lavoro con Mehta: qui, però, evidente portatrice anche di una nuova, concorrente, poderosa, commossa cantabilità, ove si riconosce la meno estroversa mano del concertatore milanese.
Quell’introversione un po’ musona, fosca e severa, amante di tempi lenti, timbri di pece e gesti rocciosi, è del resto una cifra inconfondibile della poetica gattiana; non è beninteso un difetto, poiché la si ascolta applicata con tecnica irreprensibile e crescente esperienza: da lì è venuto, del resto, l’indimenticabile portento dell’ultimo Don Carlo fiorentino [leggi la recensione]. Sorprende a maggior ragione, allora, assistere alla sorridente sospensione di quel caliginoso filo conduttore: nella sinfonia di Mahler, inedito è il Gatti che alleggerisce la portata strumentale fino a toni scherzosi, che analizza la frase al microscopio ma per rivelarne la naturalezza, che escogita per ogni tratto melodico un apposito passo e peso, che in un intento a rischio di calligrafia diviene invece attore brillante. Il suo è il dono prezioso dell’artista introverso, animato da un’improvvisa, genuina, appassionata voglia di raccontare ciò che i suoi non superficiali occhi hanno colto nell’orizzonte testuale. Preziosa e ideale alleata diviene dunque Sara Blanch, il tenero, duttile, impavido e fanciullescamente comunicativo soprano che presta il canto nel quarto movimento, col Lied tratto dallo Knaben Wunderhorn: incanta già nel discendere di farfalla tra l’orchestra, sulle ultime note del terzo movimento; moltiplica l’incanto quando la sua furba vocalità concretizza l’idea del semplice e immediato.
Si torna allora col pensiero al fresco ricordo del Don Pasquale allestito, per cinque recite dal 15 al 24 marzo, nella sala grande dello stesso Teatro del Maggio. Anche lì il concertatore era Gatti e la prima donna era la Blanch. Lui così serioso da far sembrare un muscoloso avvio di marcia prussiana l’esplosiva risata musicale posta in apertura della sinfonia: ma, soprattutto e finalmente, è stata la rara volta di un Donizetti senza tagli, senza sconti e senza eccessi, con la strumentazione lucidata nelle intrinseche finezze anziché bistrattata dalla pigrizia della tradizione. Quanto alla Blanch, già lì non le interessava illustrarsi per la virtuosa che pure è, ponendo piuttosto in primo piano l’attrice irresistibile per simpatia di gesto e malizia di parola. L’allestimento scenico, manco a dirlo, era quello del 2001 con regìa di Jonathan Miller e scene e costumi di Isabella Bywater: una casa di bambole in scala colossale, ove, tra il passare argutamente a setaccio il libretto e il porvi a complemento sottilissime controscene, si rinnova quello che si giurerebbe essere il più riuscito Don Pasquale mai visto. Il merito va ulteriormente condiviso: c’era anche Marco Filippo Romano, protagonista caricatissimo ma sommo depositario della miglior tradizione buffa; c’era anche Yijie Shi, per un solido Ernesto; e c’era anche Markus Werba, il cui Dottor Malatesta è ormai così scioltamente italiano da far dubitare della nascita austriaca.