L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Doppio e unico

di Luigi Raso

Krzysztof Warlikowski fonde le opere di Bartók e di Poulenc in un unico, ipnotico flusso teatrale magnificamente interpretato da Elīna Garanča, John Relyea e Barbara Hannigan.

NAPOLI, 28 maggio 2024 - Da due opere che molto poco hanno in comune nasce un capolavoro di teatro musicale. L’accostamento di due titoli del ‘900 europeo, divisi tra loro da quasi mezzo secolo, distanti per molteplici aspetti drammaturgici e musicali, è il presupposto per la reinvenzione registica di Krzysztof Warlikowski: sì, di vera e propria reinvenzione si tratta, perché i drammi, che si susseguono senza soluzione di continuità, danno vita ad un dramma teatrale avvincente, che spiazzando stupisce. La cronaca della serata, infatti, dovrebbe iniziare dalla fine: dalla descrizione di quell’ipnosi verso la quale, dopo quasi due ore di spettacolo, conduce lo spettacolo firmato Warlikowski.

Il Castello è quello di Barbablù musicato da Bartók, la Voix humaine è quella di Poulenc, ma il dittico che è la somma dei due è di Warlikowski: non si tratta di un semplice accostamento tra le due opere brevi, ma di una rilettura che dà vita a un abbinamento teatrale che prima di stasera si sarebbe potuto definire bizzarro, ma che ora, con la potenza di queste immagini impresse nella memoria, si considera un binomio inscindibile.

Quali sono i fili conduttori che legano i due drammi? La solitudine, di un uomo nel Castello, di una donna nella Voix; in entrambi, poi, l’amore disperato di due donne, Judith e l’indefinita Elle, per i loro uomini. Da ciò Warlikowski costruisce una produzione bellissima da vedere, ma ancor più da indagare e sulla quale editare per il continuo gioco di rimandi, citazioni didascaliche, che finisce per essere un quid pluris rispetto alla somma-accostamento del Castello con la Voix.

L’opera di Bartók inizia con un gioco di illusionismo: Judith, seduta nelle prime file di platea, è chiamata da Barbablù nelle vesti di prestigiatore a entrare dal dramma. Nel prologo riletto da Warlikowski, la donna alza la mano e sceglie di entrare nel dramma. Da qui inizia il suo viaggio nella psiche e nei lati torbidi e nascosti di Barbablù; da questo momento la magia del teatro guida Judith e gli spettatori nel lento procedere attraverso il Castello/anima di Barbablù.

Le bellissime scene e costumi di Małgorzata Szczęśniak, sapientemente illuminate dalle luci di Felice Ross e amplificate nello spazio dai video di Denis Guéguin, grazie alla loro connotazione universale forniscono a Warlikowski i presupposti per ricreare una drammaturgia teatrale, suggestiva e avvincente nella tensione che gradualmente crea.

Le stanze, gli antri reconditi della psiche di Barbablù, si presentano in scena in successione come parallelepipedi di plexiglas: qui scorre ed è racchiuso il passato di Barbablù; a una di queste scatole sarà destinata, insieme alle precedenti mogli, anche Judith.

Ma a creare il miracolo teatrale è la recitazione del solido e autorevole Barbablù di John Relyea e soprattutto della Judith di Elīna Garanča, la quale domina e divora il palcoscenico, lo illumina con il carisma della sua personalità d’artista: certi scatti felini, la sensualità di alcuni abbandoni, l’intensità degli sguardi sono più che da (ottima) cantante-attrice da grande attrice di teatro. È un debutto, quello di Elīna Garanča nella parte di Judith, che ha, per il grado di compenetrazione nella parte, del miracoloso. E l’aspetto musicale non è da meno, anzi.

Chi scrive ammette di nutrire grande ammirazione nei confronti dell’artista: in un mondo, musicale e non, dominato dalla superficialità e del pressapochismo, Elīna Garanča è seria ed estremamente professionale, sa far intravedere e immaginare il lungo lavoro che è alla base della preparazione di una nuova parte. È così intesa l’identificazione tra Judith e la Garanča, così scolpito e vario il fraseggio, diversificate le corde che la sua Judith percuote che lo spettatore ha immediatamente ben chiaro quanto studio e approfondimento vi sia dietro la metabolizzazione così ben compiuta e articolata del personaggio. La vocalità, poi, è rigogliosa, il suggestivo timbro screziato dona a Judith complessità e maturità: il do sopra il rigo che Bartók scrive al momento dell’apertura della quinta porta è da brividi tanto è sicuro, rotondo, proiettato, ma ancor più l’intensità drammatica che lo ha determinato. Judith, donna tenera, sensuale, innamorata e determinata, trova nell’interpretazione di Elīna Garanča un’interprete di riferimento assoluto. Da rivedere e da riascoltare.

Accanto a una fuoriclasse come la Garanča non sfigura John Relyea, Barbablù teatralmente molto convincente e credibile nel disegnare un uomo tormentato e chiuso in sé stesso; vocalmente è autorevole; il bel timbro scuro denota solo qualche sparuta perdita di colore, ma la linea di canto è sempre ben controllata, elegante e autorevole.

Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, in gran spolvero, precisa e dal bel suono in tutte le sezioni, Edward Gardner assicura una lettura sempre puntuale, che trova nell’ampia gamma dinamica e nella compattezza sonora i suoi punti forza.

Tra il Castello e la Voix non c’è cesura, il flusso drammatico non si interrompe mai, né c’è momento di cedimento. Mentre il dramma di Judith e Barbablù è alle battute finali, con perfetto innesto teatrale, in profondità di scorge la sagoma di Elle, la protagonista della Voix humaine: entra in scena impugnando una pistola con la quale il regista - ed è questa una licenza che altera l’essenza della drammaturgia di Jean Cocteau e soprattutto la raffinata partitura di Francis Poulenc - si sparerà in bocca dopo aver immaginato di essersi ricongiunta con l’amante dal quale si è appena separata: due trovate registiche che rischiano di banalizzare e annacquare il senso di solitudine del melodramma di Poulenc, laddove il telefono - e quanto è vero anche e soprattutto oggi! - diventa il fragile strumento di collegamento tra due solitudini, quelle di lei e di lui. Vedere apparire, poi, verso la fine del dramma, il mimo di lui in scena - il bravissimo Giuseppe Ciccarelli - riduce, seppur di poco, l’abisso di solitudine che invece la partitura di Poulenc amplia e amplifica fino a quei desolati e disperati “Je t’aime… Je t’aime” finali che chiudono il dramma.

La Voix si regge teatralmente sulle spalle di Elle: e qui è la straordinaria Barbara Hannigan, la quale attraversa il palcoscenico in lungo e in largo, si dimena, si contorce, si abbandona sul divano, si dispera, il tutto mentre viene ripresa dall’alto e proiettata su un maxischermo, come a dare un’ulteriore dimensione e punto di osservazione al suo dramma.

Recitazione calligrafica (una costante del dittico) ed efficacissima, identificazione totale di Barbara Hannigan in Elle, che nell’interpretazione del soprano canadese e di Warlokowski è una donna ritratta in un momento di grande instabilità emotiva, in preda a compulsioni, che però lascia ai margini gli abbandoni lirici che la meravigliosa e raffinatissima partitura di Poulenc pur richiede e nella quale Edward Gardner dimostra di sapersi ben destreggiare: come per il Castello di Barbablù, la sua direzione è sempre precisa ed è ben assecondato dall’affidabile, duttile e versatile Orchestra del San Carlo, compagine che riesce a catapultarsi dalle plumbee e brumose compattezze sonore dell’orchestrazione di Bartók alle purissime raffinatezze timbriche di quella di Poulenc.

Dalle pieghe della partitura di Poulenc Edward Gardner avrebbe dovuto sprigionare qualche “aroma” in più: è un flusso di sonorità stranianti (si pensi a quella del telefono), di distillati timbrici, di colori orchestrali che quasi si tramutano in esperienze olfattive tanto è evidente la loro fragranza. La concertazione di Gardner esalta, comunque, l’eccellente livello tecnico di tutti i reparti dell’Orchestra del San Carlo, la sua versatilità nell’emettere sonorità così lontane, per temperatura, peso specifico e colore, da quelle prodotte nel precedente Castello di Barbablù, la sua capacità di organizzarsi perfettamente in una strumentazione ipersezionata.

Le due ore ininterrotte di spettacolo scorrono avvolgendo il pubblico - purtroppo non numeroso (e mai come stavolta chi ha disertato ha commesso un grave errore di valutazione!) - attento, silenzioso, ipnotizzato e rapito da quell’ineffabile magia che soltanto il teatro musicale sa regalare.

Successo convinto, applausi calorosissimi e prolungati per tutti gli artefici di questo toccante e suggestivo spettacolo: imperdibile.


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