Mare dentro
di Antonino Trotta
Tra gli spettacoli più belli visti sul palcoscenico del Regio quest’anno, Der fliegende Holländer fa breccia del pubblico grazie all’interessante regia di Willy Decker e l’eccellente bacchetta di Nathalie Stutzmann. Ottimo, nel complesso, il cast, in cui brilla l’Olandese di Brian Mulligan e superba, al solito, la prova del Coro, secondo miglior protagonista dell’intera produzione.
Torino, 26 maggio 2024 – “Nella anime infuria la tempesta”. Basta la sola premessa di Willy Decker a spiegare, in maniera essenziale e inequivocabile, l’idea che sorregge la sua messinscena dell’Olandese Volante, nata all’Opera di Parigi nel 2000 e ripresa al Regio di Torino già per l'apertura di stagione 2012/13 e ora efficacemente da Riccardo Fracchia. Decadente nel taglio complessivo dell’opera, alienante nella lettura dei personaggi, Decker intende qui Der fliegende Holländer come un viaggio nell’inconscio dell’uomo, in quello di Senta in particolare, a cui un’enorme porta sul lato del palco – la scenografia di Wolfgang Gussmann eccelle per colpo d’occhio e capacità narrativa – dà facilissimo accesso: ossessionata dalla leggenda dell’Olandese – e tale ossessione è evidente fin dall’inizio del primo atto –, che prende corpo in questa dimensione dove realtà, suggestione e allucinazione si stringono in un abbraccio mortale, ella si toglierà la vita nel disperato tentativo di inseguire le proprie fantasie malate. Così, sul palcoscenico, tutta la narrazione teatrale si dipana nella libertà totale concessa da quest’onirismo conturbante e asciutto, ma è una libertà di cui Decker non abusa mai: il sogno, qui, non è pretesto per far sul palco ciò che si vuole, ma chiave di lettura per interpretare i nodi cardine della vicenda e persino le scene a margine. Ecco allora che anche gli squarci di vita più concreta, come il coro delle filatrici in apertura del secondo atto o l’attracco della nave, sono risolti con una coerenza ed efficacia drammaturgica tali da rendere questo spettacolo a tratti ipnotico e profondamente coinvolgente.
Ipnotica e coinvolgente in egual misura s’è poi rivelata la concertazione di Nathalie Stutzmann che, alla guida dei ruggenti complessi del Regio, dirige evidenziando con sapienza i lineamenti del Wagner che sarà con quelli del Wagner che poteva essere e non è poi stato. Si ascolta così un Olandese che ora solca con gentilezza acque piatte e cristalline, ora cavalca sicuro onde di piena, senza mai perdere di vista quell’italianità e quel belcanto che comunque ispira in più punti la magnifica scrittura orchestrale. Animata da un compiuto senso drammatico, che ben sposa e amplifica le idee messe in campo in scena, la lettura della Stutzmann, che mai nega ai cantanti agio o supporto, sa essere con pari energia irreale – molto belle certe distensioni ritmiche nelle scene di maggiore intimità – e tumultuosa – il coro dei morti è esempio perfetto di controllatissima potenza –, rivelando poi anche una spiccata teatralità là dove il testo si fa più istrionico e quasi parossistico.
Di gran livello il cast. S’impone Brian Mulligan che, al netto dell’indisposizione annunciata a inizio recita, non fa fatica alcuna a svettare sul resto della compagnia: con voce molto bella, timbrata e brunita ed emissione solida e vigorosa, Mulligan da vita a un personaggio che nella gelida alterità di un fraseggio vario e accattivante rafforza quell’immagine di spettrale immaterialità che ammanta e caratterizza il suo Olandese. Anche Gidon Saks, Daland, è annunciato indisposto e di fatto la sua prova, pur apprezzabilissima per intenzione e carica attoriale, in parte risente di qualche evidente affaticamento. I due tenori, Matthew Swensen (Timoniere) e Robert Watson (Erik), sono bravi entrambi. Watson, in particolare, che pure affronta una parte impegnativa con uno strumento di non portentose qualità, convince per la pulizia della linea e la febbrile sobrietà con cui dà sfogo ai propri tormenti amorosi. Johanni Van Oostrum tiene testa a Senta con dominio di mezzi e contezza di stile: eccezionalmente carismatica nella ballata centrale, dove pure qualche suono può apparire tirato un po' al limite, la Van Oostrum, che nel corso dell’opera calibra con estrema perizia colori e dinamiche, tutte atte a impreziosire un fraseggio sensibilissimo e carico di pathos, ammalia per la grande aderenza, vocale e scenica, della sua eroina all’idea registica primigenia. Completa l’ottimo cast Annely Peebo, Mary, e il superlativo Coro del Teatro Regio di Torino, istruito da Ulisse Trabacchin, qui come in tutte le altre recenti occasioni artefice di una prova maiuscola per espressività e tecnicismo vocale.
All’ultima recita il pubblico, piuttosto numeroso, saluta con calore quest’eccellente produzione e tributa autentiche ovazioni ai due protagonisti e alla direttrice d’orchestra.