L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Gala Verdi

 di Stefano Ceccarelli

All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia Daniele Gatti porta un’antologia di cori, ouverture e ballabili di Giuseppe Verdi: la sinfonia dalla Luisa Miller; “Gerusalem!” e “O Signore, dal tetto natio” da I lombardi alla prima crociata; le danze e “Patria oppressa!” dal Macbeth; “Spuntato ecco il dì d’esultanza” dal Don Carlo; la sinfonia, “Gli arredi festivi” e l’immancabile “Va’, pensiero, sull’ali dorate” dal Nabucco; la sinfonia de I vespri siciliani; le danze dall’Otello; e, dulcis in fundo, “Gloria all’Egitto” e la marcia trionfale dall’Aida.

ROMA, 31 maggio 2024 – Giuseppe Verdi è compositore amatissimo in tutto il mondo. Pur essendo stato quasi prevalentemente autore di teatro, Verdi si presta assai bene anche a soddisfare le esigenze di un contemporaneo concerto sinfonico: selezionare fra i cori e le musiche di scena delle sue opere, proponendo di volta in volta percorsi differenti, è un’operazione familiare già a molti direttori. Daniele Gatti ha l’imbarazzo della scelta, dunque, per imbastire un ricco piatto verdiano al pubblico romano. Il direttore si orienta, in maniera equilibrata, fra la prima e l’ultima produzione del compositore, volendone presentare un florilegio che tenga conto della sua intera carriera operistica.

Il Gala Verdi si apre con la sinfonia dalla Luisa Miller. Fin dall’inizio si percepisce nettamente l’idea di Gatti: cavare dalle partiture verdiane colori e contrasti, talvolta in maniera eccessivamente netta. Questo, infatti, è stato un limite della sua direzione, già ben visibile nella Luisa Miller, la cui sinfonia ha tocchi di grazia orchestrale quasi francesi, alternati a momenti più cupi. L’incipit, scuro e guardingo, è allargato da Gatti, che poi introduce più polso nella sezione successiva, per sfumare nello sviluppo, imperniato sugli interventi decisi degli archi. Il tutto ha un suo colore ed una sua coerenza, l’orchestra suona facendo emergere la tessitura strumentale; va tutto abbastanza bene, finché Gatti non decide di stringere in maniera troppo decisa il finale, con l’effetto di minare la precisione orchestrale a vantaggio di un effetto dal gusto, francamente, quantomeno discutibile. Seguono due cori dai Lombardi alla prima crociata. L’esecuzione è magistrale, non solo nella lettura agogica, che valorizza ogni momento drammatico, dagli slanci eroici ai passaggi più cullanti, ma soprattutto per la performance del coro dell’Accademia, che in questa serata farà sempre bene e sarà, indubbiamente, il protagonista d’onore di questo concerto. “Gerusalem!” (Atto III) è celebre per l’attacco soffuso, splendidamente reso, come pure per la melodia chiaroscurale (una citazione del coro d’apertura dell’atto finale dell’Anna Bolena di Donizetti?), che culmina in energiche e potenti frasi; “O Signore, dal tetto natio” (Atto IV) è più cullante, screziata delle fioriture dei legni. Si prosegue con Macbeth. I ballabili, composti da Verdi per l’edizione francese (1865), lasciano un po’ interdetti, un po’ come per la sinfonia della Luisa Miller. Gatti ricerca effetti in maniera eccessivamente carica, proponendo repentini cambi agogici, dilatazioni cui seguono momenti concitatissimi. Se si lascia apprezzare qualche passaggio (mercé dell’eccellente orchestra che Gatti sta dirigendo), altri momenti appaiono quasi forzati, soprattutto le baraonde infernali. L’effetto finale è tutt’altro che convincente. Proprio come in precedenza, il passaggio al coro “Patria oppressa”, che apre l’atto IV del Macbeth, non può che essere più netto, ma in senso positivo. Gatti propone una lettura intensa, lasciando cantare il coro in passaggi di sublime dolore, con frasi lunghe, porte a fior di labbra, che si intensificano e diventano lancinanti: il coro ha un equilibrio, una chiarezza a dir poco magnifici. Il primo tempo si chiude, ancora, con un coro: “Spuntato ecco il dì d’esultanza”, l’apertura dell’atto III del Don Carlo. Gatti attacca energico con la fanfara orchestrale: il coro prorompe nella gioia sanguinosa dell’autodafé, connesso con la cerimonia d’incoronazione di Filippo II. Gatti è abile nel variare l’agogica, appesantendo i momenti degli interventi dei frati e liberando l’euforia del coro del popolo per la pubblica festa. Il coordinamento con le bande retrosceniche è magistrale; insomma, Gatti propone una potente esecuzione di un passaggio che esprime, perfettamente, «la tinta […] bronzea, come quelle della pittura controriformistica, di El Greco, Velasquez, Jusepe de Riberta».

Il secondo tempo si apre con un’esecuzione della sinfonia del Nabucco che oserei dire quasi ieratica. Gatti largheggia, sottolineando bene ogni passaggio; gli ardori del più ispirato Muti sono lontani da questa lettura posata, ma tuttavia permeata di una certa tensione: Gatti evita effetti troppo marcati, rendendo la sua un’esecuzione coerente. Su questa linea continua con il coro di apertura, “Gli arredi festivi”, che mostra ancora una volta l’abilità e la potenza del coro ceciliano. Naturalmente, il pubblico non può che attendere con trepidazione il celebre “Va’, pensiero, sull’ali dorate”. Il coro non delude, disegnando una linea di canto uniforme, eccellente nell’uso dei volumi, accorata, piena dei colori del rimpianto e della nostalgia: l’esecuzione dei passaggi in terzine è morbido, non sforzato. Gatti dirige magnificamente, sottolineando i passaggi più screziati dell’ispirata scrittura verdiana. Si prosegue con l’articolata sinfonia de I vespri siciliani. In alcuni passaggi, si nota ancora l’idea dell’effetto a tutti i costi, in qualche passaggio tirato troppo velocemente o assai marcato (i frequenti momenti chiaroscurali); tuttavia, Gatti risulta più equilibrato, come si nota dalla sezione centrale, ricca di melodie indimenticabili, impresse dai legni e dagli archi. La serata si conclude all’insegna del gusto orientaleggiante del Verdi maturo. Un vero gioiello è la scelta, da parte di Gatti, di portare le danze della versione francese (1894) dell’Otello, di rara bellezza. Il direttore è equilibratissimo nel ritmo come pure nei volumi orchestrali, che disegnano magnificamente gli arabeschi fantastici, fatti di legni, triangoli e ritmi cangianti, di questa breve serie di ballabili. Il concerto si chiude, letteralmente, in gloria con l’Aida. A dir poco maestosa l’esecuzione del “Gloria all’Egitto” (atto II), con il coro voluminosamente spiegato, come pure l’orchestra, in particolare nella sua compagine degli ottoni. Per la marcia trionfale compaiono, sugli spalti in alto, sei trombe che si intrecciano nel celeberrimo attacco, producendo un suon argentino, squillante e preciso. I ballabili proseguono nelle varie danze ‘di carattere’, dove Gatti dà prova di equilibrio e gusto, soprattutto nei passaggi orchestrali più floridi. Il pubblico esplode in un applauso fragoroso, come pure aveva fatto dopo ogni pezzo della serata.


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