L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il chiostro dell’anima

 di Stefano Ceccarelli

Torna al Teatro dell’Opera di Roma una produzione dell’Otello di Giuseppe Verdi. La regia è a firma di Allex Aguilera, mentre la direzione di Daniel Oren. I ruoli principali sono interpretati da Gregory Kunde (Otello), Roberta Mantegna (Desdemona) e Igor Golovatenko (Jago).

ROMA, 7 giugno 2024 – La vicenda di Otello, capolavoro shakespeariano, risulta terribilmente attuale, vivendo tutti noi in un’epoca in cui, fortunatamente, di femminicidi si parla, se ne definisce la specificità e si cerca di arginare il fenomeno. Se guardando (o leggendo) la versione originale, quella di Shakespeare, i caratteri dei personaggi sono maggiormente sfumati, come pure le loro intenzioni e intime volontà, il libretto di Arrigo Boito, fra i più raffinati letterati scapigliati, rende l’Otello di Giuseppe Verdi un dramma nero, che sclerotizza i personaggi in una dimensione di abuso di potere, razzismo, amore tossico, mancanza di empatia. È un’opera, dunque, che può parlare molto alla contemporaneità, nella sua più immediata essenza.

Il Costanzi porta in scena una co-produzione (con Monte Carlo e Tblisi) dalla facies decisamente tradizionalista. Allex Aguilera presenta un’Otello la cui dimensione scenica è abbastanza fissa. Siamo all’interno di un austero chiostro, che chiude da tutti i lati le quinte; un sapiente gioco delle luci (Laurent Castaingt) ne illumina il retro, dando l’effetto dello scorrere del tempo – i momenti più belli sono quelli crepuscolari. L’idea scenica (anche se Aguilera non lo specifica) potrebbe essere venuta a Bruno De Lavenère anche dalla lettura di un passo dello splendido libretto di Boito: «nel chiostro / dell’anima ricetti qualche terribil mostro». La vicenda di Otello, claustrofobica fino al soffocamento finale, ben si può rappresentare con una scenografia altrettanto chiusa e claustrofobica, come quella di un chiostro; peraltro, l’intera vicenda, che pure germina dagli inganni di Jago e dalle illusioni di Otello, si armonizza bene, appunto, con l’ambientazione claustrale, sulla quale vengono proiettate, nei momenti più tesi della vicenda, delle ombre, correlativo oggettivo delle chimere nella mente di Otello. Su questa ambientazione monocroma, variata dall’uso di ampi tendaggi e da lampadari di gusto orientaleggiante, si stagliano i variopinti colori dei costumi (Françoise Raybaud Pace), in particolare quelli del popolo, tradizionali, in stile ottomano, che aprono una vivace finestra sulla frenetica vita della veneta Cipro alla fine del XV sec. L’effetto è quello di macchie di colore su una tela grigia: l’idea, del resto, è quella che fa da perno a tutte le regie di Pier Luigi Pizzi, famoso per conferire colore alle sue produzioni proprio tramite i costumi. I costumi dei personaggi principali, curati fin nei minimi particolari, aggiungono densità simbolica alla vicenda: Desdemona, in particolare, alterna il bianco al rosso, i cui significati sono talmente evidenti da non necessitare di una spiegazione. Aguilera immagina la regia come imperniata sugli elementi del fuoco e dell’acqua. In effetti, i momenti più piacevoli, visivamente, sono quelli connessi a questi due elementi. Se la scena dello sbarco passa senza particolare effetto (col solo ausilio del proiettore e di un velatino), quella della festa notturna presenta lo scintillio delle fiamme reali di un braciere al centro della scena, che colora il movimento dei personaggi. Ottima anche la scena dell’omaggio a Desdemona (II atto), con numerose comparse del coro di voci bianche che lasciano cadere petali sopra la protagonista. D’effetto è anche il finale III, in particolare quando Jago, in alto sulla passerella che taglia la scena, sputa del vino su Otello accasciato a terra. In effetti, Aguilera non svela, nelle note di sala, che il personaggio di Jago, secondo la sua regia, è intimamente connesso al vino: Jago offre sempre del vino (a Roderigo, Cassio, Otello), metafora delle sue arti ingannatorie – del resto, le macchinazioni di Jago hanno proprio inizio dal momento in cui fa ubriacare Cassio, inneggiando al «ditirambo / spavaldo e strambo». Il finale coglie un po’ di sorpresa e non è privo di una certa debolezza intrinseca: Desdemona viene affogata in una fontana di gusto arabeggiante (che, peraltro, dalla platea è completamente invisibile) – secondo Aguilera, per Otello «l’acqua, che all’inizio simboleggiava la sua forza, diventa ora un simbolo della sua vulnerabilità, mostrando come il suo potere distruttivo si rivolga contro di lui stesso, segnando la sua rovina e la tragica conclusione della loro storia d’amore». Al netto dell’idea registica, la scena non è di forte impatto e rappresenta bene il carattere generale di una regia classica, con qualche bel tableau, ma tutto sommato monocorde, con poco lavoro sui singoli personaggi.

La direzione è affidata a Daniel Oren: un Otello, il suo, misurato, che fa emergere l’ampia tavolozza orchestrale, senza trascinare particolarmente nell’agogica o stupire per soluzioni ardite. Particolare cura è posta, soprattutto, ai concertati e alle scene d’assieme, che sono quelle meglio sentite; comunque, Oren accompagna bene le voci e fa il suo mestiere, sostanzialmente, come va fatto. Il ruolo del titolo è affidato a Gregory Kunde, che ha cantato Otello innumerevoli volte; tenore di doti straordinarie, soprattutto negli acuti, Kunde deve oramai fare i conti con l’inevitabile senescenza della voce. Ciò si traduce in un certo qual grigiore della tessitura medio-bassa, che pure riveste una certa importanza nel ruolo di Otello, soprattutto a monte di una consolidata tradizione interpretativa novecentesca. Del resto, il ruolo del protagonista acquisisce, nel corso dell’opera (come è stato dimostrato da Antonio Rostagno in un bel saggio presente nel programma di sala) una progressiva frammentazione del canto: Verdi, per lui, sceglie un recitar cantando fatto di frasi frante, isteriche, emotivamente cariche. Kunde riesce bene nel fraseggio di ariosi come «Dio! Mi potevi scagliar tutti i mali» e «Niun mi tema», meno nei colori, che vengono sacrificati, impastati. I momenti più apprezzabili sono, invece, i suoi duetti con Desdemona e Jago, dove la corda di Kunde può librarsi nella tessitura acuta. Roberta Mantegna canta una buona Desdemona, sebbene lievemente incolore, almeno nei primi due atti. Il primo, famoso duetto con Otello, infatti, «Già nella notte densa», la vede stazionare sulla mezza voce, regalando qualche bel momento soffuso ma togliendo un po’ di pienezza ad alcune frasi. Il secondo duetto, invece, «Dio ti giocondo, o sposo dell’alma mia», riesce meglio e la Mantegna palesa maggiore rotondità e spessore vocale. Dopo un ottimo finale III, il momento migliore della sua performance è certamente il toccante atto IV: la ‘canzone del salice’, pervasa di dolore, ma soprattutto l’Ave Maria, intensamente a fior di labbra. Il miglior interprete della serata, forse, è Igor Golovatenko: il suo Jago, squillante, argentino, mefistofelico, è un carattere vocalmente compiuto. Golovatenko, oltre a un mezzo vocale invidiabile per squillo, possiede una certa facilità nel passaggio di registro come pure notevole fraseggio. Sintesi esemplare delle sue doti è il «Credo in un dio crudel», argentino e luciferino al contempo; ma, anche, il duetto con Otello alla fine del II atto. Se si vuole un esempio mirabile delle sue abilità di fraseggiatore, basterà citare «Quest’è una ragna», scandito esemplarmente. Ottima l’Emilia di Irene Savignano, non solo per presenza scenica, ma anche per mezzo vocale, direi ampiamente generoso. Austero, squillante il Lodovico di Alessio Cacciamani, come pure il Montano di Alessio Verna; buono il Roderigo di Francesco Pittari. Infine, Piotr Buszewki, che ha il physique du rôle ottimale per Cassio, avrebbe potuto osare un po’ di più vocalmente, ma il risultato è comunque buono. Ragguardevole anche la performance del coro, come si vede nel I atto – in particolare, direi, «Fuoco di gioia!». Insomma, un Otello dal gusto classico, che piace al pubblico romano, come testimoniano gli applausi che suggellano la serata.


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