L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Con licenza del gran padre Dante

di Roberta Pedrotti

Pierfrancesco Maestrini ambienta il Trittico di Puccini nell'aldilà dantesco nella produzione che costituisce il più sostanzioso impegno e contributo del Comunale di Bologna alle celebrazioni del 2024. Sul podio Roberto Abbado, sul palco un folto cast in cui si impone il Gianni Schicchi di Roberto De Candia.

leggi anche: Torino, Il Trittico, 02/07/2024

BOLOGNA, 5 luglio 2024 - Il Trittico tutto insieme. Ci voleva proprio l'anno pucciniano, almeno per questo. Poi, al momento dei bilanci, ci sarà senz'altro molto da recriminare e su cui sospirare, perché il nome di uno dei compositori più popolari di tutti i tempi sta servendo purtroppo anche da ombrello protettivo per molti eventi di qualità non esattamente brillante, per figure che di lui si servono invece di mettersi al suo servizio o per ripartizioni di fondi e interessi sui quali si comincia – né pare illegittimo – a puntare qualche dito. Per fortuna, però, fra mille Tosche e Bohème in un'abbuffata in cui alcuni si avventano per accaparrarsi più fette possibile, abbiamo qualcosa di davvero buono e dopo il Regio di Torino (che aveva già inanellato in stagione Le villi, La rondine, La fanciulla del West oltre alla Bohème e si appresta in autunno ad affiancare le Manon di Puccini, Massenet e Auber) a proporre Il Trittico integrale arriva anche il Comunale di Bologna (dopo Manon Lescaut e Tosca in questa stagione, ma anche in attesa della prossima inaugurazione con La fanciulla del West e dell'annunciata ripresa della straordinaria Bohème di Graham Vick).Due allestimenti diversi, ma non è uno spreco, giacché quello torinese firmato da Tobias Kratzer viene da Bruxelles e quello di Pierfrancesco Maestrini visto a Bologna è coprodotto con Trieste. Collaborazioni che ottimizzano le risorse ma consentono al melomane errante di comparare spettacoli differenti: perfetto così, anche perché Torino e Bologna – al di là di differenze e preferenze sui singoli elementi – hanno offerto sguardi diversi e complementari sul penultimo capolavoro pucciniano, giustamente visto come un polittico i cui elementi distinti costituiscono comunque un percorso unitario. Kratzer lo vede più proiettato al futuro, alla contemporaneità, con la scena del Tabarro costruita come una tavola di fumetto o come una scomposizione cubista di prospettive, Suor Angelica con un film parallelo che sui sentimenti fa emergere la feroce critica sociale e anticlericale, Gianni Schicchi in uno studio televisivo, nel cinismo di talk e reality. Fra questi, tessono fili conduttori il fumetto peccaminoso sul dramma passionale che passa fra le mani delle suorine, il morente Buoso che ascolta le ultime battute di Suor Angelica in disco, il televisore di Michele e Giorgetta che trasmette le traversie degli eredi Donati.

A Bologna Maestrini (scene di Nicolàs Boni, costumi di Stefania Scaraggi, luci di Daniele Naldi) parte guardando all'indietro. Non sul piano tecnologico, giacché, se Kratzer basa il secondo titolo su una narrazione parallela filmata, qui abbiamo pressoché tutta la scenografia costituita da videoproiezioni. Si guarda all'indietro e alle origini del progetto di Puccini, che inizialmente aveva accarezzato l'idea di dedicare la sua triplice opera alle tre cantiche dantesche, ma anche in senso lato a tutto l'immaginario, a tutti i riferimenti derivanti dalla Commedia che permeano sia il Trittico sia la nostra cultura. D'altra parte, è difficile negare che il mondo cupo e senza speranza del Tabarro sia infernale, che l'espiazione in un tempo sospeso di Suor Angelica ricordi il Purgatorio e che il coronamento dell'amore fra Lauretta e Rinuccio sia paradisiaco. Poi, ci sono altri aspetti da prendere in considerazione, specie per quanto riguarda lo Schicchi, che fa riferimento all'Inferno (lì pagherà il fio dell'inganno il protagonista) ma anche, con il suo seguire in toni comici e grotteschi due tragedie, al dramma satiresco posto in coda alle trilogie tragiche nella Grecia classica. Perciò, Maestrini sembra voler ricombinare citazioni dantesche (basate anche sull'iconografia di Gustave Doré) senza preoccuparsi tanto di una precisa aderenza narrativa, quanto piuttosto di topoi corrispondenti: Michele, trasportatore fluviale, ricalca Caronte, il lavoro infinito di Luigi e degli altri scaricatori ricorda il supplizio di Sisifo (che Dante assegna ad avari e prodighi); gli amanti, siano i peccaminosi e infelici Giorgetta e Luigi o i fortunati Lauretta e Rinuccio, si possono associare a Paolo e Francesca; il chiostro appare come la spiaggia dell'Antipurgatorio, quando balena la salvezza il cielo si illumina di stelle, quando l'avvelenamento prospetta la dannazione, appare la selva dei suicidi e l'anima di Angelica si muta in albero; gli ipocriti Donati indossano le cappe dorate, ma il panorama mostra i cerchi dei traditori (si riconosce bene un conte Ugolino che rode il suo arcivescovo Ruggieri), mentre il panorama Firenze che “da lontano ci parve il Paradiso” si incendia di infernali lapilli e demonietti irridenti ricordano la comicità grottesca che fa capolino nella prima cantica.

Insomma, abbiamo anche qui uno spettacolo senz'altro assai pensato, con un'acribia ammirevole che ci porta a un divertente gioco di identificazioni, senza per forza dover sovrapporre esattamente i due piani: in un aldilà in cui è possibile muoversi più liberi, le anime rievocano le loro vicende terrene, le colpe e le pene di questo e di quel mondo. A volte la sospensione dell'incredulità ha peso maggiore, talaltra si avverte un pizzico di compiacimento, qualche ridondanza, con l'ambientazione che tende a sopraffare il lavoro attoriale propriamente detto. La scelta è chiara, così come l'idea di puntare sul riferimento visivo all'immaginario dantesco. Resta, però, su tutto un dubbio che è impossibile sciogliere perché connaturato alla coerenza dello spettacolo: Angelica, dopo aver espiato in Purgatorio, è sull'orlo della salvezza, quando il dolore estremo la fa piombare all'Inferno ed è necessario il miracolo dell'intervento della Vergine per darle accesso al Paradiso. In questo contesto la narrazione è lineare, ma la scrittura pucciniana, quel capolavoro impressionismo armonico che è la sconcertante “Amici fiori”, fa pensare al Miracolo come al culmine del delirio. Perfino la grandeur scapigliata del finale di Mefistofele contiene un pizzico d'ironia che non ci fa credere del tutto all'apoteosi paradisiaca; figuriamoci Puccini, che non è il dolciastro Giordano di Mese Mariano. Insomma, lo spettacolo fila, e non potrebbe svilupparsi altrimenti, anche quando sopra le righe, ma è più facile credere a Lauretta che dà “minuzzoli” di membra umane a un mostruoso “uccellino” infernale che a Suor Angelica davvero salvata da un miracolo, per quanto vi sia chi sostiene la sincerità di Puccini nel musicare l'apparizione della Vergine. Quindi, lo sbocco segue una logica precisa, sebbene, non ci persuada del tutto.
Sul podio, Roberto Abbado è stretto fra vari fuochi: da un lato il desiderio evidente di curare tutta la finissima trama coloristica, la profondità di linguaggio, il tessuto ritmico e armonico del Trittico, dall'altro il desiderio di non sacrificare il suono dell'orchestra nell'acustica del Comunale Nouveau evitando nel contempo di penalizzare troppo il palcoscenico. Ne risulta una concertazione ricca di intenzioni, dettagli, spunti interessanti, ma anche molto controllata e trattenuta, perfino troppo in certi casi; per non esagerare talora si rischia di limitarsi nella piena resa di tutte le sfumature. Risulta, comunque, assai interessante il confronto ravvicinato fra due modi diversi ma egualmente moderni e plausibili di intendere Puccini oggi: quello asciutto e fortemente contrastato di Steinberg a Torino e quello più morbido e colorito di Abbado a Bologna.

Il cast appare sostanzialmente corretto, sebbene con pochi elementi di spicco e qualche segno di stanchezza diffuso che potrebbe far pensare alla tensione della prima o a qualche difficoltà acustica. A Franco Vassallo manca un po' più di sostanza nel registro grave per dare piena incisività al suo Michele, così come la sicura esperienza di Roberto Aronica nei panni di Luigi non evita qualche segno di affaticamento nell'ardente duetto con Giorgetta. Questa è Chiara Isotton, che ha tutte le carte in regola per essere oggi un'interprete di riferimento delle prime due eroine del Trittico, come aveva dimostrato già in Suor Angelica a Verona. Sembra rifarsi in entrambe le parti all'immagine della “tigre al cor ferita”, estenuata, ferina, indomita e lacerata. Affronta con estrema partecipazione l'improba epilogo del secondo titolo, senza risparmiare effetti feroci, quasi infernali, già in “Sorella di mia madre, voi siete inesorabile”. Lo scotto di tanta passionalità si paga talvolta in qualche diseguaglianza e momento di stanchezza che, ci auguriamo, non sia che un comprensibile episodio accidentale per un'artista sulla quale contiamo molto. In Suor Angelica le si oppone la Zia Principessa di Chiara Mogini, in sostituzione della prevista Marianna Pizzolato, della quale non avrà la schietta natura contraltile (Mogini ha mosso i primi passi come soprano orientandosi poi verso parti Falcon), ma non cerca nemmeno d'inventarla con fortzature e mantiene un'apprezzabile austerità. In Gianni Schicchi, poi, Darija Augustan è una Lauretta un po' evanescente, al contrario del Rinuccio dal chiaro colore lirico di Francesco Castoro.

Nella folta schiera dei comprimari, citeremo subito la Frugola di Cristina Melis, Manuela Custer come badessa e Zita, Vittoriana De Amicis (Suor Genovieffa e Nella) poi Luciano Leoni (Talpa e Betto di Signa), Xin Zhang (Tinca e Gherardo), Mattia Denti (Simone), Michele Patti (Marco), Marco Puggioni (Venditore di canzonette), Cristobal Campos e tatiana Previati (i due amanti), Marco Gazzini (Mastro Spinelloccio), Bryan Sala (Ser Amantio di Nicolao), Zhibin Zhang (Pinellino), Giulio Iermini (Guccio). Infine, Elena Borin (suora zelatrice), Federica Giansanti (maestra delle novizie), Maria Cenname (suor Osmina), Mariapaola Di Carlo (suor Dolcina), Laura Cherici (suora infermiera e Ciesca), Tatiana Previati e Hyensol Park (le cercatrici), Anna Grotto e Federica Fiori (le converse), Laura Stella (una novizia). I due Zhang, Campos, Park, Grotto, Fiori, Stella, Gazzini, Sala e Iermini sono allievi della Scuola dell'Opera del Comunale e dal coro di voci bianche preparato da Alhambra Superchi proviene l'interprete – assente in locandina – di Gherardino. Il coro del Comunale è come sempre diretto da Gea Gratti Ansini.

Resta un nome, ma non l'abbiamo dimenticato. Inizialmente, parlando del cast, si diceva di una correttezza diffusa che si accompagnava a qualche diffuso affievolimento del suono, tale da far pensare alle difficoltà acustiche della sala. Tuttavia, quando Roberto De Candia entra in scena nei panni di Gianni Schicchi, ogni inciampo pare dimenticato: la voce arriva sempre ben timbrata e proiettata. Certo, siamo certi che nella sala del Bibiena l'avremmo sentito ancor meglio, ma l'emissione sempre a fuoco si distingue anche nel capannone in zona fiera e lo fa mostrando tutta l'arguzia e il dominio dei colori che dello scaltro esponente della gente nova sono tratti fondamentali. De Candia è uno Schicchi immediatamente simpatico, umano e paterno, si discosta, per esempio, dal cinismo espresso dal pure eccellente Roberto Frontali a Torino (che gioia poter godere di tanti ottimi artisti dalla spiccata personalità). È semmai un uomo molto pratico, spiccio, di cuore, ma con la sua scorza ruvida e un personalissimo senso della giustizia. Uno che non fa la caricatura di Buoso, sa che potrebbe risultare sospetto con vocette esagerate e gioca di fioretto fra inflessioni nasali, piccoli tremori e uno scandire serissimo, tale da persuadere notaio e testimoni così come atterrisce i Donati. Una lieve spruzzata di accento toscano, quasi impercettibile, quel tanto che basta a dar colore locale senza far la macchietta, et voilà: un Gianni Schicchi perfetto, esempio di gusto, intelligenza ed empatia.

Al termine di ciascuna “cantica” pucciniana, applausi per tutti, maggior vigore all'inizio e via via più assuefazione nella cornice scenica. La netta sensazione è che la lunga serata nelle repliche potrà crescere e se qualche tensione sul palco alla prima si è avvertita, potrà poi felicemente sciogliersi. Anche perché vedere Il Trittico eseguito nella sua interezza è già di per sé un'esperienza che val la pena di essere vissuta e che rende onore a Puccini.


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