L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Elogio del musicista

di Roberta Pedrotti

Martijn Dedievel sigla un'altra prova eccellente a capo dei complessi del Comunale di Bologna in un programma particolarmente ostico, confermandosi una delle bacchette più interessanti della nuova generazione.

BOLOGNA 6 giugno 2024 - I fenomeni vanno di moda e molte grandi, grandissime istituzioni fanno a gara per accaparrarseli. Più giovani sono, meglio è. Hanno talento e hanno studiato bene, certo, ma non basta: per essere fenomeni, oltre a star bene nelle copertine con i loro volti da liceali, devono saper fare con disinvoltura i globetrotter, accumulare un repertorio illimitato, suonare e dirigere quanto più possibile, anche contemporaneamente, ma sempre con il meglio del meglio delle orchestre internazionali, ché il fenomeno di rado ha avuto tempo di lavorare - e far gavetta - con complessi giovanili o di medio livello, quelli che insegnano a costruire il suono dalle basi. E, per quanto possa esser bravo, spesso il fenomeno deve dimostrare di essere un prodigio calcando il pedale dell'originalità, dell'irruenza, delle dinamiche estreme: se è giovane deve essere estroso, deve essere energico.

I fenomeni vanno di moda, e non è detto che siano sempre effimeri e privi di meriti o prospettive, ma per fortuna non tutti i giovani direttori di valore si iscrivono in questa categoria o in quella dei loro emuli. Ci sono musicisti dalla maturità precoce, ma senza fretta di bruciar le tappe, attenti più a far bene che a farsi notare. Musicisti che magari non si saranno trovati prima dei trent'anni la fila delle case discografiche e delle massime istituzioni mondiali, ma che sanno e sapranno farsi notare. Non mancano in Italia (si pensi, mutatis mutandis, al caso Bonato), né in Europa, come dimostra benissimo il ventinovenne belga Martijn Dendievel, che il Comunale di Bologna ha ben pensato di assicurarsi in una collaborazione continuativa, benché non ufficializzata da una carica (e sarebbe un'ottima idea per un prossimo futuro).

A Bologna, Dendievel ha già dimostrato una spiccata attitudine all'opera italiana – parla fluentemente la nostra lingua –, il che non significa saper far quadrare i conti e accontentare i cantanti, ma concertare con cura e idee. Nei concerti sinfonici ha pure dato prova di una caratura artistica di prim'ordine per controllo, visione d'insieme e capacità analitica. E sì che l'ultimo programma con l'Orchestra del Comunale non era proprio dei più semplici, anche senza contare che le prove erano state meno del previsto a causa di un'assemblea sindacale. Pohádka – Una fiaba, op. 16 di Josef Suk e il Concerto in do maggiore per pianoforte, coro maschile e orchestra, op. 39 K. 247 di Ferruccio Busoni sembrano scelti assieme per solleticare i cacciatori di rarità più smaliziati, senza concessioni più popolari. Non solo per l'eccentricità rispetto al repertorio abituale, poi, entrambi sono assai esigenti con tutti gli interpreti.

Risulta invero assai piacevole il primo brano, suite dalle musiche di scena per Radúz and Mahulena (1898) di Julius Zeyer, fiabesca storia d'amore trionfante dopo prove, incantesimi e maledizioni. Non geniale, ma ben scritta e inserita felicemente nella tradizione del poema sinfonico d'area slava, sulla scia del suocero e insegnante Antonín Dvořák (senza dimenticare Smetana o Rimskij Korsakov), la fiaba di Suk permette a Dendievel di dipanare belle sonorità compatte, ombreggiature sapienti e fluida articolazione con un'orchestra del Comunale di Bologna concentratissima. Qualità e impegno che emergeranno a maggior ragione nello sterminato concerto di Busoni. Nell'arco dei cinque movimenti si ravvisa quasi una punta di sadismo (o di masochismo, dato che il compositore fu anche il primo esecutore al piano) nel voler esibire una tale quantità e varietà di stili, materiali, difficoltà. “Tutto ei provò”, si direbbe come del Napoleone manzoniano, travalicando l'idea stessa del concerto solistico: il pianoforte è per lo più strumento concertante sovente inglobato, quasi fagocitato, nella scrittura orchestrale; il quinto movimento, con l'apparizione di un coro maschile di sapore brahmsiano, guarda a tutto ciò che nella sinfonia deriva dalla Nona di Beethoven, mentre la diabolica difficoltà della Tarantella del quarto sembra affiliarsi beffarda a certi tratti dei poemi sinfonici di Strauss, non senza aver toccato prima suggestioni neoclassiche o aver profuso a piene mani dotti intrecci contrappuntistici. Chapeau, dunque, a Vincenzo Maltempo, pianista che con una dedizione ammirevole e un'ancor più ammirevole tenuta tecnica e poetica, restituisce una parte di asperità inversamente proporzionale alla soddisfazione personale patente (che poi ci sia soddisfazione artistica e intellettuale, è altro discorso). Gli applausi sono copiosi e più che meritati; il bis non arriva, ma pretenderlo dopo settanta minuti di improbe fatiche sarebbe stato persino crudele. Chapeau al coro preparato da Gea Garatti Ansini, davvero ottimo per impasto e musicalità. Chapeau all'orchestra, sempre concentrata senza cedimenti, e soprattutto a Martijn Dendievel, che non perde mai di vista l'assieme, conferisce compattezza alla sterminata partitura senza tradirne la natura composita, trova perfino modo di fraseggiare, autorevole ma mai duro. Non sono molti i direttori di questo tipo, ma quando se ne trovano sono loro quelli che vorremmo veder valorizzati: musicisti, non fenomeni. Il successo di questa sera lo conferma.


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