L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vienna ostesa

di Francesco Lora

Mozart, Beethoven, Schubert, Strauss e Bruckner hanno formato i programmi dei tre concerti per la più ufficiale celebrazione del bicentenario della Nona e per le tournées in Italia dei Wiener Philharmoniker e della Gustav Mahler Jugendorchester: dal Musikverein di Vienna al cartellone del Ravenna Festival, attitudini opposte si desumono inoltre in Riccardo Muti e Kirill Petrenko.

VIENNA, 6 maggio 2024 / RAVENNA, 11 maggio e 2 giugno 2024 – Piace poco che la Neue Schubert Ausgabe abbia manomesso l’usuale numerazione delle sinfonie del sommo compositore viennese, alterando così non solo un’abitudine, ma anche un simbolo: “La Grande” e “L’Incompiuta”, invertite, sono divenute la n. 8 e la n. 9. Chi conosce la vita e le opere di Beethoven, Bruckner, Dvořák, Mahler e – appunto – Schubert, sa però come il destino musicale abbia fissato, in quel numero nove, delle fatali, scaramantiche e temute colonne d’Ercole per la produzione sinfonica: una decima sinfonia, ufficialmente chiamata e compiuta, per questi compositori non c’è stata, e la nona ha significato per tutti, di volta in volta, un’apoteosi, un congedo, un involontario o consapevole testamento spirituale. Ciò vale in particolare nei primi due esempi della cronologia, in sé e nella loro dialettica: la Nona di Beethoven, colossale nell’estensione e nella concezione, rivoluzionariamente aperta al canto, condannò alla crisi d’inferiorità tutto il successivo Ottocento germanico; la “Grande” di Schubert ne è l’immediata e insolente risposta, ché emula la mole beethoveniana ma non imita le sue strutture, e gioca scoperto citando il tema dell’ode An die Freude.

Il 7 maggio scorso, la Nona di Beethoven ha compiuto i duecento anni dalla prima esecuzione: la ricorrenza tonda è stata festeggiata a Vienna, nella sala grande del Musikverein, con quattro concerti dal 4 al 7 del mese. Trattandosi di un fatto ufficialissimo, s’è avuta pressappoco un’officiatura sacra, col decano del collegio direttoriale, Riccardo Muti, e i Wiener Philharmoniker, l’orchestra che più legittimamente discende, evolvendosi, dalla cultura beethoveniana. In modo deliberato, non è stata cercata la lettura filologica e pungente né quella innovativa e brillante, come invece è avvenuto, lo stesso giorno, per esempio, da una parte a Wuppertal, con l’Orchester Wiener Akademie e il WDR Rundfunkchor sotto la scrupolosa direzione di Martin Haselböck, e dall’altra a Milano, con l’Orchestra e il Coro del Teatro alla Scala genialmente concertati da Riccardo Chailly. Con Muti e i Wiener è stato invece osteso un Beethoven titanistico, conforme alla tramontante tradizione del secondo Novecento: poderoso nel passo, allargato nei tempi, levigato nell’impasto, omogeneo nella timbrica, inesorabile nel carattere, fosco e opaco nei colori, denso e fisso nella consistenza; il Beethoven, insomma, della discografia storica col nostalgico marchio di Vienna.

Intrapreso tale indirizzo poetico, che poco di nuovo insegna sul testo scritto della Nona ma ne rammenta piuttosto l’irraggiungibile terribilità, s’intende che né Muti né i Wiener potrebbero aver rivali per strapotere tecnico e mastodontica assertività: in ciò, rimangono identici a sé stessi. A superarsi è invece la residente compagine corale del Wiener Singverein, nell’occasione trascinata da un entusiasmo tale che volumetria e incisività toccano quote italiane, seminando peraltro i colleghi latini su un terreno che la pone in netto vantaggio: canta infatti An die Freude non con i nasi ficcati a leggere nei libri-parte, bensì a memoria, con splendida naturalezza d’eloquio e orgoglioso possesso della prosodia. Qualche pasticcio è al contrario fisiologico che avvenga nel quartetto dei solisti, soprattutto se arruolato in nome del Fach, leggi la pregiudiziosa e innegoziabile classificazione dei calibri vocali all’uso tedesco (con un’aggravante: il disinteresse di Beethoven alla comodità dei cantanti). Dunque: abnegate, stilizzate e studiose il soprano Julia Kleiter e il mezzosoprano Marianne Crebassa; fin troppo lussuoso e disinvolto il superbo tenore Michael Spyres; simpatico ma calamitoso, nelle frequenti escursioni baritonali della parte, il basso Günther Groissböck.

Due programmi di concerto fatti per specchiarsi l’uno nell’altro sono curiosamente stati eseguiti dai medesimi artisti e in giorni contigui, ma in contesti ben distinti. L’ape musicale ha così volato dietro una seconda locandina, intenta al Mozart della Sinfonia n. 35 “Haffner” di Mozart e soprattutto al predetto Schubert della “Grande”: tournée dei Wiener, con Muti, a Firenze il 12 maggio, a Bari l’indomani e il giorno prima a Ravenna, nel Palazzo De André, per il Ravenna Festival, dove l’ape s’è posata. Si ripete pressoché identico il discorso già fatto, con un Mozart non edenico o corrusco, ma come grandiosamente tirato fuori dal porfido. L’orizzonte è ampliato, piuttosto, dall’essere “La Grande” una partitura del cuore per Muti, tanto più se eseguita con l’orchestra prediletta, i Wiener, e in tre città-chiave della di lui vita: negli anni la lettura s’è fatta ancora più indugiante e sobria di fiammate, senza troppo interessarsi – come in Mozart, come in Beethoven – al necessario direzionamento dinamico delle frasi; ma dopo l’assolo di corno, esordio di tutto, il concerto potrebbe finire lì, né si saprebbe cosa chiedere di maggiore. Spirito e materia, anche nell’encore di un rubatissimo Kaiser-Waltz di Johann Strauss, sono del resto quelli di Muti e dei Wiener.

L’esperienza degli opposti, infine, aiuta come non mai a mettere a fuoco l’identità dei primi oggetti. Si ammira e ama in Muti, plenipotenziario, davanti ai Wiener, anche quella sua volontà di abbassare le braccia davanti ai passaggi solistici, o a virtuosistiche raffiche strumentali, o alla replica di passi: è il chiaro modo di dimostrare fiducia e affetto all’orchestra, invitandola a partecipare non solo da operaia, ma anche da teoreta, alla fisionomia e ai significati dell’esito artistico. Kirill Petrenko agisce, per così dire, in modo complementare. Il 2 giugno egli ha diretto, sempre al Ravenna Festival, la Gustav Mahler Jugendorchester nella Sinfonia n. 5 di Bruckner: una partitura che richiede maturità anche d’ascolto, quindi, affidata a una vera e valida orchestra giovanile. Petrenko la comanda a bacchetta sul fronte tecnici, senza concedere partecipazione sul fronte poetico: entusiasma, così, per la matematica precisione dei contrappunti nel quarto movimento, ma nel contempo scoraggia nerbo e motivazione di colleghi chiamati, pur col sorriso stampato in viso, non ad assimilare ma a obbedire. Sicché s’è usciti dal De André con la nostalgia non solo dei Wiener, che è cosa ovvia, ma anche di quella palestra, vistosamente più ricca di humanitas, che è la Cherubini.


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