Rêve orientalisant
di Michele Olivieri
Nella Bayadère alla Scala Kimin Kim e Nicoletta Manni con Alice Mariani incantano grazie all’autenticità di questa fantasia orientalista del XIX secolo dove l’accademismo classico crea un inconfutabile stile d’epoca mentre Nureyev aggiunge una pennellata quasi astratta.
MILANO, 14 giugno 2024 – Gli standard elevati della compagnia scaligera hanno tutto ciò che necessita per restituire la grandiosa Bayadère in tre atti di Rudolf Nureyev. Il titolo programmato nel 2021 durante la pandemia era stato visto da pochi in presenza, a differenza della registrazione trasmessa su Rai 5 che aveva riscosso ottimi ascolti la sera del 31 dicembre. A distanza di tre anni l’allestimento è stato riprogrammato.
Da sottolineare che è la prima volta che il titolo viene messo in scena da un corpo di ballo differente da quello per cui era stato creato, l’Opéra di Parigi (il progetto venne lanciato dal precedente direttore del Balletto Frédéric Olivieri). L’odierno direttore Manuel Legris, già étoile dell’Opéra per volere di Nureyev con il quale aveva lungamente collaborato, è stato definito come il suo “erede” dal sovrintendente Dominique Meyer durante la recente conferenza stampa di presentazione della nuova stagione 2024-2025. Legris aveva danzato con la brillantezza del marmo il ruolo di Solor alla prima parigina del 1992 a pochi mesi dalla scomparsa di Nureyev che riuscì nel suo intento di presentare una nuova versione grazie alla notazione di Petipa e alla suggestione tratta dalla musica di Minkus.
Storicamente La Bayadère venne rappresentata al debutto al Teatro Imperiale Bol'šoj Kamennyj di San Pietroburgo nel 1877. Il creatore del ruolo di Solor fu Lev Ivanov, che diventerà il più affidabile assistente di Petipa e un raffinato coreografo (a lui dobbiamo il successo imperituro dello Schiaccianoci). Per lungo tempo La Bayadère è rimasta estranea all’Occidente, fino al 1961 quando il Kirov ne eseguì un estratto al Palais Garnier con il giovanissimo Nureyev che in seguito mise in scena il Regno delle Ombre per il Royal Ballet. La versione del “tartaro volante” ricalca quella del Mariinsky lasciando intatta l’anima creativa di Petipa. Solamente scene e costumi si differenziano con alcuni cambi di lettura nell’interpretazione delle variazioni. L’ultimaBayadère vista alla Scala risale al 2018 nella versione coreografica di Yuri Grigorovich durante l’ospitalità del Balletto del Bol’šoj a Milano con protagoniste le coppie formate da Svetlana Zakharova-Denis Rodkin in alternanza a Olga Smirnova-Semën Čudin e a Alyona Kovalyova-Jacopo Tissi.
Manuel Legris (che si prepara alla sua ultima stagione alla Scala in scadenza a novembre 2025) ha supervisionato la coreografia offrendo al pubblico l’opportunità di assistere alla singolare versione di Nureyev. Portan così al Corpo di Ballo scaligero l’impeccabile austerità del classicismo, dando risalto alla purezza delle linee, ai passi, all’importanza del gesto e al portamento che sono alcuni dei fondamenti dello “stile Nureyev”. Al fianco di Legris ricordiamo la coach per i ruoli principali Monique Loudières, già splendida étoile dell’Opéra di Parigi e il Professeur ospite Jean-François Boisnon oltre ai maître di casa Lara Montanaro e Massimo Murru, al maître principale Laura Contardi, al coordinatore del Corpo di Ballo Marco Berrichillo e al maître sulla produzione Antonino Sutera.
A differenza della versione parigina, a Milano sono cambiate scene e costumi, firmati con maggiore leggerezza ed equilibrio teatrale da Luisa Spinatelli (con assistente Monia Torchia). Da segnalare le luci di Marco Filibeck che hanno sostenuto il cromatismo scenico. Il sudcoreano Kimin Kim, primo ballerino del Marinsky ha condiviso con l’étoile Nicoletta Manni la drammaturgia del libretto di Marius Petipa e Sergej Kudekov. Il suo Solor è ineccepibile, e quanto di più bello si possa ammirare. La sua forza nelle alzate e nei salti è entusiasmante per leggerezza, soavità, impalpabilità. Atterraggi morbidi e poetici port de bras. Appare come un’entità la cui natura si trova a un grado celestiale. Nel finale è un’insieme di materia, di luce e spazio che incanta lo spettatore. A Legris va il grande merito di averlo invitato. Kimin Kim è uno dei più grandi ballerini della scena attuale, tecnicamente superbo e con il pieno controllo negli adagi straordinariamente intensi ed espressivi. Il portamento è raffinato e la sua figura esalta le linee con l’andamento musicale fondendoli in un tutt’uno.
La sensibilità della coppia Manni-Kim ha assurto un tono lirico che si è distinto per l’invocazione spirituale. Infatti questo balletto non è solo un triangolo amoroso tanto caro agli stilemi dell’Ottocento, ma è ricco di sacralità sospinta verso lo spazio infinito. Proprio la sua trascendenza gli conferisce uno status universale. Alice Mariani come Gamzatti ha interiorizzato il giusto contrasto rispetto all’intensa Nikya della Manni. Sicuramente il sorriso solare e la tecnica solida e disinvolta contribuiscono ad affermare la sua personalità, mentre la Manni conferma i riconoscimenti ottenuti recentemente sia per i virtuosismi sia per la presenza scenica. La sua danza è solida come le capacità tecniche e la proverbiale disciplina. Spettrale al punto giusto nell’atto al chiaro di luna.
Due curiosità storiche della produzione originale di Pietroburgo: Nikija non danzava nessuna variazione durante il Grand pas d’action ma la prima ballerina assoluta dei Teatri imperiali Mathilde Kšesinskaja chiese all’allora Maestro di Cappella e Direttore della Musica Riccardo Drigo di comporre per lei una speciale variazione che divenne di esclusiva appartenenza della ballerina e non fu mai più eseguita dopo di lei. Da notare anche che la principessa Gamzatti non indossa le scarpette da punta se non negli ultimi trenta minuti di questa produzione di tre ore complessive (quattro atti e sette scene con apoteosi finale).
Per quanto concerne l’attuale allestimento si ritrova tutta l’imponenza e lo sfarzo dell’originale francese. I costumi sono ispirati alla tradizione indiana come la scenografia ricca di colori e sfumature. Il risultato estetico è da kolossal. Ottima la prova del corpo di ballo con una nota di merito al fachiro di Domenico Di Cristo, al pantomimico ruolo del Bramino di Massimo Garon, al Rajah di Gabriele Corrado, allo schiavo di Edoardo Caporaletti, alla schiava Aya di Azzurra Esposito, alle due soliste d’Jampe Camilla Cerulli e Denise Gazzo, all’applauditissimo idolo d’oro di Mattia Semperboni, alla delicata danza Manou di Agnese Di Clemente, ai solisti della danza tamburo Camilla Cerulli e Christian Fagetti e all’irresistibile Pas d’action con Camilla Cerulli, Giordana Granata, Marta Gerani, Linda Giubelli, Letizia Masini, Chiara Ferrara, Greta Giacon, Madoka Sasaki, Navrin Turnbull, Emanuele Cazzato.
Come si conviene, segnatamente d’effetto è l’atto bianco nel regno delle ventiquattro ombre (nell’originale di Petipa erano trentadue) con gli ipnotici arabeschi della processione (test cruciale per un corpo di ballo e per molte giovani ballerine) in cui spiccano per grazia le tre soliste Letizia Masini, Linda Giubelli, Asia Matteazzi (in ordine di apparizione).
Convinti e trionfali applausi, tra cui molti a scena aperta, hanno accolto le esibizioni che hanno catturato senza cedimenti l’attenzione del variegato pubblico nelle atmosfere dell’Oriente. La partecipazione degli allievi della Scuola di ballo del Teatro alla Scala diretta da Frédéric Olivieri e l’Orchestra del Teatro alla Scala diretta da Kevin Rhodes nell’orchestrazione firmata da John Lanchbery, hanno suggellato la produzione con il successo vigoroso che merita. La compagnia della Scala e il suo direttore si sono connessi senza remore all’eredità immortale di Nureyev, e alla sua ultima creazione terrena.
Michele Olivieri