L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Lo Strauss di riferimento

di Francesco Lora

Eseguita in forma di concerto al Festival di Salisburgo, Capriccio coglie una lettura determinante con la direzione di Christian Thielemann, la sensibilità dei Wiener Philharmoniker e il canto di Elsa Dreisig, Mika Kares, Sebastian Kohlhepp, Konstantin Krimmel, Bo Skovhus ed Ève-Maud Hubeaux.

SALISBURGO, 4 agosto 2024 – Se proprio si vuole scovare un qualcosa di discutibile, potrebbe essere il clavicembalo usato per l’occasione: nell’osservarne la cassa e nell’ascoltarne il suono, ha l’aria di essere copia di uno strumento settecentesco francese, anziché uno di quei potenti, vetrosi, pesanti Neupert germanici e proto-novecenteschi che oggi, snobbati, marciscono in un angolo d’aula dei conservatorii italiani, e che furono invece un primo passo di reinvenzione del sound antico nelle composizioni di De Falla, Poulenc, Petrassi o Ligeti. O appunto di Richard Strauss, il quale ne fa uso nella sua ultima opera, la meta-teatrale e incipriata Capriccio, eseguita in forma di concerto al Festival di Salisburgo, nel Grosses Festspielhaus, per tre sere dal 26 luglio al 4 agosto. Non è questione di giudicare uno spettacolo secondo una scaletta di categorie critiche preacquisite dal critico: con Christian Thielemann sul podio e i Wiener Philharmoniker in buca, l’esecuzione è infatti una di quelle, miracolose, che le categorie non le rispetta, non le affina e non le sfida, bensì le determina; come la locandina promette e l’attuazione mantiene, ecco il Capriccio di riferimento degli ultimi venticinque e forse cinquant’anni, innanzi al quale il critico cerca d’imparare qualcosa.

Si potrebbe parlare della macchina, ossia della tecnica disumana che Thielemann ha da sempre nel braccio, e poi del calore, del rombo, della seta e dell’oro che i Wiener recano in dote. Ma a valere più della macchina è l’organismo: il testo scritto, con Thielemann e i Wiener, respira e vive, diviene imprevedibile, pare nuovo, muta indescrivibilmente di passo e di colore all’evolvere di ogni affetto o atmosfera; tutto ciò che è segnato sul foglio risponde all’appello, ma, se si trattasse di un dettato musicale, non si saprebbe come tornare dal suono al segno, tale è il significato frattanto liberato in quest’ultimo, come pura energia prima costretta dentro un nucleo. Quanto detto è non un’auto-generazione dal nulla, bensì il riavvio di una lezione enorme e negletta: quella di Herbert von Karajan, oggi invariabilmente menzionato eppure sempre meno conosciuto, meditato e capito. Con Thielemann e i Wiener, quella lezione restituisce un suono così malioso e un incedere così plastico da esaltare e commuovere, e non poter dunque indurre il sospetto di una sterile calligrafia: l’estetizzazione estrema di una partitura già estetizzante risulta, puntualmente, più sostanza che forma.

Siccome il peana rischia, però, un’eccessiva astrazione nel riferire di una concretissima esecuzione, tre tangibili indizi – tre tra tremila altri possibili – aiuteranno a spiegare cosa rende grande, anzi massimo, questo Capriccio. Primo: Thielemann ha di certo nella propria mente una visione nitida e inesorabile della partitura secondo sé stesso; eppure, da vero e maturo leader anziché da imberbe dittatorucolo della bacchetta, lo si vede di continuo fidarsi dei professori d’orchestra, ridurre quel suo magnifico gesto, cedere loro la palla, pronto a richiamarla non appena il gioco necessiti d’essere sospinto verso una nuova intenzione poetica. Secondo: i Wiener coincidono perlopiù con l’orchestra dell’Opera di Stato di Vienna, e tra le somme compagini sinfoniche del mondo, in compagnia quasi esclusiva con la Staatskapelle di Dresda, si distinguono per la vocazione anche teatrale; in questo Capriccio s’impone così la prontezza unica dei Wiener nell’ascoltare, sostenere e avvolgere il cantante, dalla prima nota all’ultima sillaba, cantando e recitando a loro volta. Terzo: in una contemporaneità che idolatra la sfuggente creatività e irride la faticosa erudizione, Capriccio obbliga all’esame del sapere; tra le molte citazioni di temi da altri lavori, ve n’è una, ricorrente, dall’Ouverture di Iphigénie en Aulide di Gluck; Thielemann e i Wiener fanno la differenza: intuendo la giusta timbrica e agogica, evocano non l’originale francese, ma la rielaborazione di Wagner, quella nota a Strauss.

Poi, certo, Capriccio è anche un’opera per interpreti che potranno dirsi grandi cantanti a patto di essere grandi artisti. Elsa Dreisig lo è al punto da meritare di essere una Contessa – la Contessa – in scala con tanto direttore e tanta orchestra: affabile, giovanile, leggiadra, luminosa, con l’eleganza della Francia natìa e l’esattezza della Germania adottiva, fissa un moderno modello di stile e comunicativa, utile non solo alla protagonista di Capriccio, ma anche alla Marescialla del Rosenkavalier e all’Imperatrice della Frau ohne Schatten, nonché alle eponime di Ariadne auf Naxos e Daphne. Mika Kares, come La Roche, ha un vocione degno di Fafner e nondimeno la giusta verve da direttore del teatro, mentre Sebastian Kohlhepp, diafano e rigoroso quasi come un Evangelista di Bach, e Konstantin Krimmel, morbido, cordiale e disinvolto anche nelle battute in italiano, differenziano a dovere il musicista Flamand dal poeta Olivier. Pieno di estroverso spirito e palpabile joie de vivre il Conte di Bo Skovhus, sostanziosa nel canto e fastosa nella caratterizzazione la Clairon di Ève-Maud Hubeaux, incantevole il consumato caratterismo nel Monsieur Taupe e nel Maggiordomo di Jörg Schneider e Torben Jürgens. Puntuali ma senza traccia d’idiomatica latinità Tuuli Takala e Josh Lovell, cui sarebbero affidate le parti dei due cantanti italiani, da assegnare dunque di preferenza ad artisti nostrani disposti a un cammeo. Tutta insieme, la compagnia recita seguendo non altra regìa che quella di Thielemann, e calca e indossa non altri scene e costumi che quelli dei Wiener: il gesto dietro i leggii è istituzionalmente ridotto al minimo spontaneo, eppure nulla sembra mancare rispetto a un allestimento in piena regola, dove all’apertura del sipario supplisce un umoralissimo preludio a sestetto d’archi e il light design è rappresentato da una Mondscheinmusik forse la più inebriante mai ascoltata.


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