Scena senza teatro
di Luca Fialdini
Delude la (parzialmente) nuova produzione di Tosca del Festival Puccini, in particolare per allestimento e trio protagonista
TORRE DEL LAGO (LU) 9 agosto – Insieme alle rarità di Edgar e delle Willis, o ancora della Turandot rappresentata con il (non) finale pucciniano, il 70° Festival Puccini avanza alcune proposte più seducenti per il pubblico più vasto: Tosca rientra sicuramente fra queste e in effetti nell’anno del centenario l’adattamento del dramma di Sardou sta conoscendo un numero elevatissimo di messe in scena. Una spiegazione di questa insistenza si può avere dalla semplice osservazione della platea di Torre del Lago, davvero gremita anche alla seconda recita.
Trovandosi collocata fra le due belle produzioni di Bohème e Turandot di cui abbiamo già scritto, era inevitabile avere buone aspettative su questa Tosca, considerando pure il fatto che in recenti anni il titolo ha sempre riscosso apprezzamenti da parte di pubblico e critica nei diversi allestimenti. Tutto ci si poteva aspettare fuorché una produzione largamente insufficiente.
L’allestimento è nuovo ma solo in parte, nel senso che l’apparato scenografico – con qualche defezione – deriva direttamente dalla famosa “Tosca fascista” recensita nel 2022 sempre a firma di Pier Lugi Pizzi, uno spettacolo a sua volta germinato da un allestimento creato per le Terme di Caracalla. La scena è una tomba, non esiste altro modo per definire la Tosca più sepolcrale di sempre: gli unici colori ammessi sono il bianco e il grigio, persino nei video di Matteo Letizi. A questo proposito, si osserva che nelle foto contenute nel libretto della stagione il ledwall presenta le solite immagini ma a colori, cosa che pare esorcizzare almeno in parte l’aria fredda da ossario, quindi è normale interrogarsi sul perché di questo cambiamento assai poco felice. Grigio, bianco e nero ritornano continuamente nei costumi, come quello davvero poco appropriato di Tosca (ci fosse un velo sarebbe un ottimo abito da sposa), quello di Angelotti, fino alle sezioni femminili del coro che per qualche motivo sono vestite tutte a lutto stretto.
Come già scritto nelle precedenti recensioni, è risaputo che gli allestimenti firmati da Pizzi non abbiano un solido impianto registico, ma si tende a chiudere un occhio sulla lacuna perché di solito la sfilata di costumi avviene in una bella cornice: in questo caso non c’è nulla di positivo nemmeno nella scenografia e mancando una regia vera e propria l’opera affonda già prima di “Recondita armonia”. Di tutta la passione e l’intensità di cui Tosca è intrisa non resta niente di vivo tra i marmi e le luci inerti.
Per converso, la direzione di Daniele Callegari è ottima. C’è molta attenzione al gusto della scrittura – quindi niente divagazioni veriste – e soprattutto pone la massima cura nel non sovrastare mai i solisti, una cautela davvero apprezzabile in una situazione non ideale per il canto come quella di un palco all’aperto. Callegari si segnala per la scelta di tempi comodi per il canto come per la recitazione, per l’impeccabile sostegno alle voci e per il buon equilibrio ottenuto fra palco e buca. L’Orchestra del Festival Puccini risponde compatta al gesto di Callegari, producendo quello che forse è il miglior risultato da parte della buca nelle cinque produzioni della stagione; in particolare si osservi come l’energia e il piglio sanguigno che mancano totalmente nella scena siano invece presenti nelle giuste proporzioni nella trama orchestrale. Il Coro preparato da Roberto Ardigò è più centrato rispetto ad altre serate, tuttavia non si può non osservare come quest’anno la compagine corale sia molto al di sotto del livello udito nelle edizioni passate, un dato incomprensibile per chi scrive; meglio il Coro di voci bianche diretto da Chiara Mariani, in grado di ritagliarsi il proprio spazio nel primo atto.
Nel cast dei solisti si riscontra, invece, una curiosa anomalia perché, sorvolando sul non buonissimo (ma marginale) pastorello di Francesca Presepi, i comprimari sono nettamente superiori ai personaggi principali. Bene il carceriere di Alessandro Ceccarini, mentre Gianluca Failla e Luigi Morassi incarnano in modo assai convincente Sciarrone e Spoletta. Ottimo Alessandro Abis nelle vesti di Angelotti e dispiace di non poterlo ascoltare in un ruolo più esteso; Andrea Concetti, già recensito in occasione di Manon Lescaut e Turandot, è un sagrestano di lusso: anche nel suo caso è davvero difficile accontentarsi di udirlo solo nel primo atto dato che a Concetti bastano pochissimi tratti per elevare di rango il proprio personaggio tanto da far dimenticare di avere a che fare con una parte breve.
L’assegnazione dei tre ruoli principali è un evidente errore di casting in quanto nessuno dei tre è davvero idoneo per la propria parte. Non siamo ai livelli tragici della Manon Lescaut, ma il risultato è analogo visto che anche qui l’opera non riesce mai a ingranare.
Alejandro Roy, già ascoltato a Torre del Lago in una Fanciulla del West di cui si ha ancora un buon ricordo, in questo frangente sembra abbia perso un po’ di smalto. Il timbro è piuttosto chiaro e senz’altro piacevole, ma ci sono evidenti difficoltà nel sostegno e appare anche una certa tendenza ad aprire molto i suoni, specialmente nel registro grave. Resta una qualche facilità nel registro acuto e nella recitazione riserva alcune felici intuizioni.
Poco convincente anche Erika Grimaldi nel ruolo del titolo. Lo strumento ha delle pregevolezze come i bei filati, tuttavia l’interpretazione è quasi priva di ricerche sul colore: l’unico momento in cui si investe un po’ di più in questo senso è il “Vissi d’arte” che viene chiuso con un paio di messe di voce ben pensate e ben eseguite, strategicamente vicine alla zona applausi (che il pubblico non manca di tributare ben felice). Complessivamente la realizzazione musicale è buona, mentre il profilo recitativo è apparso poco solido, in particolare il gesto scenico rischiava di sembrare un poco goffo e forse non sufficientemente ponderato: i due ingressi e l’uscita dopo il colloquio con Scarpia nel primo atto, o ancora l’incontro con Cavaradossi nel terzo, per soffermarsi sugli esempi più evidenti.
Molte riserve anche su Dalibor Jenis, che propone uno Scarpia signorile ma con qualche caduta di stile e in questo senso è impossibile non pensare alle pose involontariamente comiche assunte alla conclusione del finale primo atto. Il colore vocale è piuttosto chiaro, è vero, ma non è affatto inappropriato per il personaggio per il taglio interpretativo prescelto; piuttosto quello ritratto da Jenis è un barone Scarpia davvero poco malvagio, in più manca tutto quel contorno di ipocrisia e viscidità che caratterizza i suoi incontri con Floria Tosca. In breve: un antagonista che non è carismatico perde la sua funzione.
In ogni caso si registra un’accoglienza calorosa da parte del pubblico, con molti applausi a scena aperta con una particolare attenzione per la protagonista.