L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Buon onomastico, imperatore!

di Francesco Lora

La serenata Il trionfo della Fama di Francesco Bartolomeo Conti, composta per celebrare l’onomastico di Carlo VI d’Asburgo, ritorna alla grande dopo tre secoli, al Festival di Musica antica di Innsbruck, sotto la direzione di Ottavio Dantone e con il canto di Sophie Rennert, Nicolò Balducci, Benedetta Mazzucato, Martin Vanberg e Riccardo Novaro.

INNSBRUCK, 6 agosto 2024 – Il Festival di Musica antica di Innsbruck ha tra i suoi indirizzi fondamentali quello di riscoprire le composizioni patrocinate, nel Sei-Settecento, dalla corte imperiale degli Asburgo. Fu questo un contesto formidabile non solo per la sua centralità politica, ma anche per la musicofilia di Ferdinando III, Leopoldo I, Giuseppe I e Carlo VI, sovrani che sapevano ascoltare e comporre da fini intenditori, commissionare partiture, collezionare manoscritti e circondarsi di eccellenti compositori, cantanti e poeti. Lo scorso 6 agosto, nella sala grande dello Haus der Musik, s’è così riascoltato, a trecento anni e qualche mese dalla sua prima e unica esecuzione, Il trionfo della Fama, ossia la serenata che l’imperatrice consorte, Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel, fece cantare il 4 novembre 1723, a Praga, per celebrare l’onomastico di Carlo VI. La musica è del fiorentino Francesco Bartolomeo Conti, tiorbista e compositore di camera dell’imperatore: la tramanda un manoscritto calligrafico destinato alla libreria del sovrano e oggi nella Biblioteca Nazionale Austriaca (Mus.Hs.17222). Il libretto è invece di Francesco Fozio e contempla un’allegoria ove un manipolo di virtù personificate, presiedute dalla tromba della Fama e vigilanti intorno al sovrano, esaltano quest’ultimo e nel contempo sé stesse attraverso di lui. Nel suo complesso, si tratta di un piccolo capolavoro non tanto per un’ispirazione irripetibile, che invero non c’è, bensì per un mestiere solidissimo, che dà l’esempio: ecco illustrata la colonna sonora del potere secondo quel modo conservatore, cesellato, massiccio e anti-galante che tanto piaceva al padre di Maria Teresa. Due parole ancora sulla fisionomia dell’inedito lavoro: cinque voci sole impegnate in tutti i registri e in una scrittura spesso ardua; coro diviso in quattro palchi di ripieni, a rappresentare i continenti allora noti; orchestra che si estende da archi e basso continuo fino a trombe, timpani, oboi e fagotti concertanti; una sinfonia, due cori, dodici recitativi, dieci arie e un duetto, per circa un’ora e mezza d’ascolto.

Molte più parole, infine, merita la benvenuta esecuzione tirolese, concertata da Ottavio Dantone, il nuovo direttore musicale del Festival (dopo il mandato di un altro italiano, Alessandro De Marchi). La sua lettura piace poiché – come di rado, in genere, oggi accade – s’avvale giustamente di organici generosi nel numero e nel frutto, con gli strumenti dell’Accademia bizantina abbondanti d’archi nonché di cordialità, risonanza, spessore, energia e colori, e con le voci di Novo Canto e della Stagione armonica – una bella trentina – ottimali per prosodia e timbrica davvero italiane (contro l’uso internazionalmente invalso, nelle voci come negli strumenti, d’inventare un’italianità di maniera, credibile come gli spaghetti alla bolognese, la quale è in realtà uno scellerato passaporto per arbitrii ed esagerazioni). Ottima la fluidità dell’accompagnamento al canto, e così pure la visione d’assieme su una partitura la quale, più di quanto comunemente avvenga in un’opera coeva, cerca a ogni nuovo brano il riassortimento delle risorse linguistiche.

Proprio poiché tutto procede sotto stella benigna, spiacciono alcune macchie paradossalmente dovute non all’inerzia ignorante ma alla laboriosa diffidenza che soprattutto gli italiani oppongono al testo scritto in modo inequivocabile. Per esempio: è tipico di quell’epoca che nelle arie tutti gli strumenti armonici del basso continuo debbano tacere, all’attacco della parte vocale, mentre gli archi evitano di proseguire unisoni e corrono a riempire l’accordo; qui, però, gli strumenti a corde pizzicate continuano a suonare e vanificano così l’effetto prescritto. Altro esempio: gli oboi, di prassi, suonano solo nei ritornelli strumentali, con parti proprie o raddoppiando i violini, e vedono espressamente indicati i passi solistici loro spettanti; qui, però, accade che un oboe solo scippi la frase a una parte di violino – per giunta riconfermata come tale in una serie superstite di libri-parte – e che il pulito discorso originale s’arricchisca di una stravaganza fuori luogo.

Di qualità il quintetto delle voci sole. Sophie Rennert, nella parte sopranile della Gloria, fa valere un porgere, una pronuncia, una naturalezza e una vocalizzazione degni di una cantante madrelingua. Nicolò Balducci e Benedetta Mazzucato, nelle parti contraltili della Fama e del Genio, si distinguono l’uno per il curioso ossimoro di una flautata incisività e una mordace simpatia, l’altra per l’elocuzione altera e la cura del fraseggio (a dispetto di una lieve artefazione tecnica). Martin Vanberg, nella parte tenorile del Destino, mostra anch’egli come un vocalista addirittura scandinàvo possa naturalizzarsi egregiamente nel canto all’italiana. Riccardo Novaro, nella micidiale parte del Valore, tutta basata sullo sbalzo tra sopra e sotto il rigo in chiave di Basso, tradisce sì le difficoltà che avrebbero del resto atteso al varco anche ogni collega, ma espone tutto – i recitativi in particolare – con una tale sottigliezza d’accento e musicalità, da far scuola e incassare ammirazione.


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