L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Menomazioni, geroglifici e infradito

di Francesco Lora

La prima esecuzione in età contemporanea di Cesare in Egitto di Geminiano Giacomelli, al Festival di Musica antica di Innsbruck, è interessante a patto che non vi si voglia additare a tutti i costi una riscoperta clamorosa. Censurabile l’assetto testuale eseguito da Ottavio Dantone, concertatore peraltro di pregio alla testa di Accademia bizantina, e dubbi anche sugli esiti registici di Leo Muscato, fino a un’impegnata compagnia di canto nella quale spiccano facilmente Arianna Vendittelli e soprattutto Margherita Maria Sala.

INNSBRUCK, 7 agosto 2024 – Allo stato attuale della ricerca-musicologica-quella-vera, non ci sono elementi per affermare, come invece è avvenuto negli ultimi giorni, che Cesare in Egitto sia il capolavoro operistico di Geminiano Giacomelli, valoroso maestro di cappella alla corte ducale di Parma nel secondo quarto del Settecento. Piuttosto, si tratta di un’opera intorno alla quale si possono raccontare curiosità, accattivandosi così il pubblico odierno: fu creata a Milano, Regio Ducal Teatro, nel carnevale 1735 (prima versione, perduta), ma già nell’autunno successivo compariva a Venezia, Teatro di S. Giovanni Grisostomo (seconda versione, tramandata); il libretto milanese era una rielaborazione di quello scritto da Giacomo Francesco Bussani per Antonio Sartorio, quasi mezzo secolo prima, e già rielaborato da Nicola Francesco Haym per Georg Friedrich Händel: l’ulteriore rielaborazione veneziana si dovette nientemeno che a Carlo Goldoni (che fece un lavoro teatralmente peggiorativo e drammaturgicamente pessimo); la compagnia di canto era dignitosa a Milano, dove Vittoria Tesi, il massimo contralto del Settecento, promosse la parte di Cornelia al ruolo di prima donna, ma a Venezia ella fu attorniata da colleghi nuovi e di alto rango o meglio collocati rispetto a prima: i soprani Margherita Giacomazzi e Felice Salimbeni, come Giulio Cesare e Cleopatra, più il tenore Angelo Amorevoli, come Tolomeo. Altri lavori di Giacomelli, peraltro, avrebbero oggi priorità di ripresa in età contemporanea, a partire da quello Scipione in Cartagine nuova che segnò anche l’unica occasione di riunire su uno stesso palcoscenico Francesca Cuzzoni, il Farinelli e il solo rivale temuto da quest’ultimo, Giovanni Carestini. Invece no: nel corrente Festival di Musica antica di Innsbruck, l’allestimento operistico di punta è stato appunto dedicato alla versione lagunare di Cesare in Egitto, per tre recite dal 7 all’11 agosto nel Tiroler Landestheater.

L’idea, di per sé, è un po’ ingenua ma non cattiva, a patto che nel titolo scelto si voglia additare non a tutti i costi una riscoperta clamorosa, bensì, piuttosto, un ottimo esempio di opera standard – diversa, per dirne una, da un coevo capolavoro conclamato come Artaserse di Johann Adolf Hasse – quale poteva andare in scena in uno tra i massimi teatri dell’epoca, contando più sugli interpreti che sulla partitura. Va aggiunto che di Cesare in Egitto è pubblicata, dal 2020, un’entusiastica edizione critica a cura di Holger Schmitt-Hallenberg (consorte dell’illustre mezzosoprano Ann), e che conviene approfittare di questo benvenuto studio pregresso onde rimettere a fuoco un’epoca, un autore e uno stile. All’uguale entusiasmo dichiarato da Ottavio Dantone in un’intervista nel programma di sala, tuttavia, corrisponde solo a tratti l’attendibilità dell’esecuzione ch’egli ha concertato a Innsbruck. Si apprezza una volta di più, nel suo lavoro, la lettura naturale, semplice, pregnante e scorrevole, alla testa di un’Accademia bizantina densa di energici strumentisti, e teoricamente ideale al fine di porre in primo piano le qualità dei cantanti, sia come virtuosi, sia come attori. Il ginepraio è nondimeno servito quando egli, anziché appoggiarsi alla predetta edizione critica, ne sforni di persona una seconda con un co-curatore, e impugnandola esegua in realtà un testo (parole e musica) gravemente menomato e manomesso. Le arie ci sono tutte, in apparenza; se si sta ben attenti, però, si nota il loro massacro mediante tagli interni: trattandosi di arie col da capo, con struttura A-B-A, più d’una perde per strada la seconda sezione e la ripresa della prima; ancor più spesso è attuato un procedimento subdolo: nel Settecento maturo, infatti, le arie col da capo corrispondono a una struttura non tanto tripartita, ossia A-B-A, quanto pentapartita, ossia AA'-B-AA', mentre nell’esecuzione di Dantone ci s’inventa in molti casi, a forza di amputazioni, suture e arrangiamenti, una struttura AA'-B-A'', mai e poi mai ascoltata ai tempi di Giacomelli. Che bisogno c’era di rimboccarsi le maniche e perder tempo in tale scempio, scomodando in quella di ‘edizione critica’ un’etichetta di garanzia notarile? E perché mai il Festival di Musica antica di Innsbruck, messo meritoriamente in piedi per restituire in modo scientifico un repertorio negletto, deve divenire sede di una dis-integrazione testuale?

È del pari un’occasione persa lo spettacolo con regìa di Leo Muscato, scene di Andrea Belli, costumi di Giovanna Fiorentini e luci di Alessandro Verazzi: i cantanti escono in scena, cantano e rientrano in quinta, senza un leggibile e attraente progetto drammaturgico, degno del nome che inaugurerà la prossima stagione del Teatro alla Scala, e con invece un inutile ossequio all’ambientazione egizia (puramente immaginaria nel 1735, quando al S. Giovanni Grisostomo non si vide di certo un solo geroglifico). Un dettaglio inquieta e fa dubitare del corretto inquadramento stesso del dramma da parte del regista: a differenza del libretto originale per Sartorio e della rielaborazione per Händel, in quella per Giacomelli – e soprattutto in quella goldoniana-veneziana – la protagonista teatrale e la prima donna musicale è senza dubbio Cornelia, come doveroso omaggio alla Tesi e al suo mastodontico – qui addirittura prevaricante – talento di attrice; guai a farsi ingannare dal nome nel titolo: secondo una lunga tradizione, esso spetta al personaggio di più alto rango (l’imperatore, dunque), che può non essere il protagonista; per venire al punto: agli applausi finali, l’interprete di Cornelia esce tra i primi su sei, come se non sia stata decodificata l’eminenza della sua parte. Né si può giustificare la suddivisione della recita ponendo l’unico intervallo a metà dell’atto II, interrompendo così la logica drammatica dei tre atti e – quel ch’è peggio – scegliendo come punto di cesura il monologo di un comprimario, in un passo teatralmente minore e a costo di spaccare in due una stessa mutazione scenica (cioè la serie di scene che corrisponde a un medesimo stesso fondale).

Tra i cantanti, la meno coinvolta è il soprano Emőke Baráth, l’unica non madrelingua, adeguata nella tecnica all’agile parte di Cleopatra ma invariabilmente atarassica nell’espressione e insensibile alla parola. Una lezione d’incisività le è data dall’altro soprano, Arianna Vendittelli, la quale però, all’inverso, ha qualche ragione in più di preoccuparsi circa la parte di Giulio Cesare e la virtuosistica scrittura che lì l’attende. Un discorso analogo vale per il tenore Valerio Contaldo come Tolomeo, per il sopranista Federico Fiorio come Lepido e per il contraltista Filippo Mineccia come Achilla: l’impegno è strenuo ed evidente, ma il bagaglio naturale e tecnico risulta messo a dura prova, con soluzioni non sempre persuasive e stridentemente difformi tra i tre artisti. L’ultima a uscire per incassare i maggiori applausi dovrebbe essere, di diritto, come detto, il mezzosoprano Margherita Maria Sala quale Cornelia: non sarà forse l’erede della divina Vittoria, ma, con un realistico istrionismo e un accento ben calcato, ella sa farsi padrona del palcoscenico, a proprio modo aggiornando – non il dismesso coturno illuministico, bensì le fiammanti infradito odierne – la maniera di essere prima donna.


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