Tradurre Verdi
di Roberta Pedrotti
Dopo l'esecuzione in forma di concerto nel 2020, il libretto francese approntato per l'edizione parigina di Macbeth nel 1865 debutta in forma scenica al Regio di Parma. Una curiosità storica resa con una buona qualità complessiva e sostenuta soprattutto dalle prove di Lidia Fridman e Michele Pertusi sul palco, Roberto Abbado sul podio.
PARMA, 26 settembre 2024 - Nel 2020, con tutte le precauzioni dovute alla pandemia, il Festival Verdi non rinunciò al proprio ruolo, rimodulò il cartellone e riuscì comunque a proporre in forma di concerto nel parco Ducale Macbeth con il testo francese approntato per il debutto parigino del 1865, secondo la revisione di Candida Mantica sull'edizione critica di David Lawton [Parma, Macbeth, 11/09/2020]. Ne uscì anche una testimonianza discografica, doveroso coronamento di un'operazione prima di tutto di valore documentario e di ricerca. Benché il ministero (a tutt'oggi all'apparenza disinteressato alle sorti di Villa Verdi, che langue chiusa così come si presume languano stagnanti i fondi raccolti con opere e concerti) sembri coltivare altri interessi, restiamo persuasi che qui, fra le istituzioni musicologiche, di formazione, di produzione, gli artisti e i musicisti meritevoli risiedano le vere risorse culturali del paese, fuori dagli interessi d'immagine e di bandiera.
Oggi, dunque, quel Macbeth torna ad aprire il festival parmigiano quasi a saldare un debito sospeso con il virus: Verdi aveva resistito, ma ora doveva tornare anche in teatro, a piena capienza, in forma scenica. Un atto importante in questa sede, ma che non deve illudere di disporre di una versione paragonabile alle due (1847 e 1865 in italiano) già note. L'autore lavorò sempre sui versi italiani, considerando la commissione parigina più che altro come un'opportunità per perfezionare l'approccio giovanile all'amato Shakespeare, tant'è che non presenziò nemmeno alla prima dell'opera in francese. Conoscere il testo approntato per l'occasione da Charles Louis Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont, fare l'esperienza del rapporto fra una differente prosodia e versificazione, fra sfumature testuali diverse e la musica verdiana, soppesare affinità e distanze, approfondire nel concreto storia e prassi della librettistica e del teatro musicale: sono tutti motivi d'interesse che animano questo Macbeth in seno al festival, ma pongono anche precisi distinguo sul senso del recupero e per la sua circolazione autonoma rispetto ad altri titoli davvero francesi (Jérusalem, Le trouvère, Les vêpres siciliennes, Don Carlos). Semmai, su questo filone, sarebbe bello vedere e valutare anche Rigoletto e Othello, per i quali Verdi attuò pure varianti musicali e, nel secondo, si avvalse della traduzione di Arrigo Boito.
Nel 2020 un'altra potente propulsione per la proposta fu la presenza di Ludovic Tézier, uno dei maggiori interpreti verdiani, e il maggiore di lingua madre francese, in circolazione. Senz'altro, se dobbiamo tradurre Macbeth, una ragion d'essere non può che risiedere nel dominio della parola da parte dell'interprete. Oggi nel cast 2024 tutti rendono l'idioma d'oltralpe più o meno come fanno con l'italiano, ma se si cerca il francese da madrelingua lo si trova nel parmigianissimo Banquo di Michele Pertusi, che fra Guillaume Tell e Don Quichotte, Athanaël e Philippe II sembra sempre nato con i panni sciacquati nella Loira. Non c'è parola, non c'è intenzione, non c'è sottinteso che non si assapori nella prova del più nobile degli attori nel canto. Questo è Verdi: parola, dignità, autorevolezza, gusto musicale. Il velluto della voce nasce privilegiato, ma non sarebbe tale senza il cervello e il cuore. Pertusi è uno di quegli artisti che, ormai nei decenni, ci fa dire fortunati di essere suoi contemporanei.
Non è, però, questo Banquo un fiore nel deserto. Dopo il felice debutto in una parte che le si confà a meraviglia [Fermo, Macbeth, 12/11/2022], Lidia Fridman torna alla Lady e anche in francese non delude. Se la figura alta e snella sovrasta quella di Macbeth, l'inquietudine della sua ombra è accresciuta da un volto quasi da bambola, con una grazia infantile dai riflessi freddi, artificiali, dolci e demoniaci. Il timbro denso, i gravi inferi e gli acuti taglienti, il fraseggio frastagliato e perentorio completano un personaggio che si impone non solo fisicamente sul consorte. La dinamica di coppia è chiara: un elemento dominante, serpentino, ctonio, e uno dominato, impulsivo, un soldato poco avvezzo alle riflessioni e travolto dagli eventi. Ernesto Petti può vantare una bella vocalità robusta, teatrale, versata a una declamazione chiara e robusta del testo, benché l'impostazione dell'interprete risulti di temperamento un po' rude e sia senz'altro passibile di rifiniture e approfondimenti per mettere meglio a frutto questo gran potenziale (ma l'emozione del debutto gioca pure la sua parte).
Luciano Ganci porta in dote a Macduff fiero smalto tenorile e piena partecipazione espressiva, cui si unisce l'efficace Malcolm di David Astorga, confermato dall'edizione del 2020 come la Comtesse di Natalia Gavrilan. Rocco Cavalluzzi (Medico), Eugenio Maria Degiacomi (Servo, Sicario, Apparizione), Agata Pelosi e Alice Pellegrini (Apparizioni) completano il cast insieme con il coro del Regio, sempre e meritatamente applauditissimo.
Come nel 2020, sul podio troviamo Roberto Abbado, che conferma le sue migliori qualità di chiarezza d'intenti (ciò che scrive nelle note al programma di sala è esattamente ciò che sentiamo) e di adesione alle ragioni del teatro. Rispetto all'esecuzione in forma di concerto, infatti, questo Macbeth scenico appare più concreto, più teso, concitato. Non inutilmente frenetico, ma curato e coerente nei colori, animato da un feroce impulso ritmico, specchio del parimenti feroce dibattersi della psiche prima ancora che della violenza fisica che pur pervade l'opera. La Filarmonica Arturo Toscanini, con l'Orchestra giovanile della Via Emilia per la banda interna, realizza con la consueta qualità il taglio interpretativo del concertatore.
Per riportare a vita teatrale Macbeth con il libretto parigino si coinvolge una firma storica, quella di Pierre Audi, libanese di nascita ma francese di passaporto, esperienze e formazione. La sua impostazione è ormai consegnata all'idea di classico contemporaneo: nulla di troppo audace per destare scandalo o far parlare di rottura, nulla di troppo decorativo e didascalico per far parlare di tradizione. Non si scontenta nessuno, ma non si entusiasma nemmeno. La simbologia è nota e ben riconoscibile, con il metateatro della prima parte, le grate e le sbarre nella seconda (scene di Michele Taborelli); la confezione è di lusso nelle belle luci di Jean Kalman e Marco Filibeck; le coreografie di Pim Veulings propongono spunti interessanti quantunque non originalissimi (tre Lady – come tre sono le streghe in Shakespeare – danzano con un Macbeth e rappresentano una gravidanza che forse partorirà le apparizioni, forse evoca il rapporto cruciale fra la protagonista, la maternità e la femminilità; per le "Ondine e Silfidi" è una gioia veder coinvolti giovanissimi allievi di Professione Danza). I costumi di Robby Duivenam servono benissimo Lidia Fridman, molto meno Ernesto Petti, non proprio aiutato dallo spettacolo a far emergere il carisma e la complessità dell'antieroe eponimo.
Tutto si risolve in una generale soddisfazione; forse pochi brividi, pochi spunti su cui discutere, ma di certo una bella solidità d'insieme, alcune prove maiuscole, la curiosità appagata di “porre in lista” anche una rappresentazione scenica di questo Macbeth. Così il Festival Verdi alza il sipario: si colmi il calice!