L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Lo spazio della tragedia

di Luigi Raso

Torna al San Carlo il fortunato allestimento di Elektra firmato nel 2003 da Klaus Michael Grüber e Anselm Kiefer, questa volta con la concertazione di Mark Elder e le presenze carismatiche di Ricarda Merbeth ed Evelyn Herlitzius.

NAPOLI, 27 settembre 2024 - Malgrado i quasi ventuno anni trascorsi dal debutto del fortunato allestimento di Elektra firmato dal compianto regista tedesco Klaus Michael Grüber si arriva, come in quella lontana serata, alla fine dello spettacolo defatigati e soggiogati dall’intensità delle emozioni che l’opera di Richard Strauss promana. Merito, in primo luogo, del dramma di Sofocle, poi del meraviglioso libretto di Hugo von Hofmannsthal, in perfetta simbiosi - e per fortuna nostra la collaborazione sarà fecondissima - con la tellurica, febbricitante, tormentata, devastante e variopinta partitura composta tra il 1906 e il 1908 e rappresentata per la prima a volta a Dresda nel 1909.

Rivedere per la terza volta questo spettacolo, imperniato e quasi assorbito nella sua essenza teatrale dall’impianto scenografico di Anselm Kiefer, è in primo luogo, per chi scrive e per chi ha avuto la fortuna di assistere al suo debutto, nel dicembre nel 2003, l’occasione per riflettere sulla longevità di uno degli allestimenti più fortunati della storia, recente e meno, del Teatro San Carlo: non a caso, nel 2004 lo spettacolo valse al San Carlo il Premio Abbiati per - si legge nella motivazione - “la riuscita spettacolare e l’intensità poetica dello spettacolo firmato da Klaus Michael Grüber e con la straordinaria presenza come scenografo-costumista di Anselm Kiefer”. Fu, già allora, proprio l’elemento scenografico a eclissare i meriti di una ben assemblata compagnia di canto, che schierava nel ruolo della protagonista Gabriele Schanaut e la direzione, perfettibile per molti aspetti ma nel complesso volenterosa e apprezzabile, di Gabriele Ferro.

Dal dicembre 2003 seguì una ripresa nel 2017 (leggi la recensione), ricordata per la profonda e travolgente concertazione di Juraj Valčuha; ed eccoci alla seconda ripresa di stasera. Se della regia è cambiato poco, nulla del suggestivo e artistico impianto scenografico; viceversa, i tre direttori che questo spettacolo ha visto avvicendarsi sul podio hanno dato della insidiosa partitura di Richard Strauss visioni tra loro distanti.

Sin dall’icastico ed evocativo incipit dell’opera, il deciso e possente tema di Agamennone, ovvero il protagonista assente e presente nel corso dell’intera opera, la scelta interpretativa dell’esperto Mark Elder appare improntata a una ben calcolata saggezza: opta, pertanto, per tempi alquanto dilatati, che prosciugano la partitura di quella eccitazione orgiastica, febbrile che si ritrova nel denso e complesso ordito strumentale, nella successione dei tempi, nell’avvilupparsi dei temi musicali; ma, allo stesso tempo, la scelta è attenta (e, forse finalizzata) a non far “disunire” - per questo verbo si prende a prestito un’esortazione tratta dal film È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino (2021) - la compagine orchestrale, limitando le occasioni, stasera sparute, d’imprecisioni.

Immergendo la narrazione del dramma in un clima più lirico, la visione di Elder stempera le passioni, quasi raffredda l’ardore dell’atroce vendetta che divora la protagonista: per ottenere ciò, il direttore calibra con rara sapienza le dinamiche strumentali, evitando clangori, cavando dall’Orchestra del San Carlo un suono morbido e aderente al canto rispetto, meno turgido e deciso rispetto a quello che può aspettarsi dall’approccio con la partitura di Elektra. Nel complesso, al netto di qualche imprecisione e considerata l’estrema difficoltà esecutiva, l’alterità culturale di questo repertorio, la compagine del San Carlo si dimostra in buona forma e sa ben decifrare e dar suono alla visione interpretativa di Mark Elder. Fuori scena e impegnato per un breve intervento nel finale dell’opera, il Coro, sotto la guida di Fabrizio Cassi, ben si inserisce, per colore e peso vocale, nelle ultime e significative tessere nel mosaico musicale di Elektra.

Il solo sguardo ai nomi in locandina faceva ipotizzare per questa ripresa di Elektra uno dei migliori cast oggi possibili; la resa vocale, alla prova dei fatti, ha confermato in larga parte la previsione. Ricarda Merbeth, nella parte eponima, ha un curriculum ampio e vario: carriera internazionale, è interprete delle opere di Wagner e Strauss nei principali teatri. A impressionare, però, è l’excursus vocale: ad Elektra il soprano tedesco è approdata partendo, tra le varie parti affrontate, da Marzelline di Fidelio. Una carriera e un’evoluzione vocale, quelle della Merbeth, che si riflettono nella tecnica di canto, nel mondo in cui, ad esempio, affronta i tanti acuti della parte: l’attacco è sempre “coperto”, poi la colonna di fiato, con un crescendo dinamico costante, provvede a riempirli e dar loro risonanza e possanza.

Se l’esordio “Allein! Weh, ganz allein. Der Vater fort” lascia alquanto perplessi per la non adeguata robustezza vocale e la dilazione dei fiati, così come per i tempi eccessivamente indugianti, il prosieguo è in rapidissima e bruciante crescita. Ad una vocalità salda, sicurissima nell’intonazione, Ricarda Merbeth aggiunge un fraseggio analitico, tornito, attentissimo alla benché minima inflessione di vocali e consolanti, immediatamente percepibile anche da chi non padroneggia la lingua tedesca. Impressiona per la precisione, per i colori che il suo canto-declamazione imprime alle frasi musicali: e così ne deriva una Elektra scolpita e allo stesso tempo devastata dalla sua psicologia ammalata, stranita, proiettata in una dimensione nella quale domina soltanto la sete di vendetta/giustizia. Ma in questa allucinazione di sentimenti di odio e vendetta, la Merbeth sa anche trovare accenti di intenso e intimo lirismo nella magnifica scena dell’agnizione di Orest; spietata, poi, nel drammatico confronto con la madre Klytämnestra.

Personaggio di incandescente intensità drammatica è dunque l’Elektra delineata da Ricarda Merbeth, la quale, alle doti vociali e interpretative, aggiunge una recitazione asciutta - così come la regia e lo spettacolo nella sua completezza pretendono - ma costruita su una gestualità che promana tragicità e su una mimica facciale, si pensi al roteare allucinato degli occhi, che incutono terrore.

Ecco un’artista!” vien da pensare allorquando Evelyn Herlitzius declama, scava e scaglia verso il pubblico la parte di Klytämnestra: difficile ipotizzare oggi un’artista che sappia tradurre meglio di lei le allucinazioni e i tormenti di cui soffre l’assassina di Agamennone. La si ascolta, la si ammira recitare e si resta ammaliati da questa tragica rappresentazione di una disfatta psicologica. Come nel caso di Ricarda Merbeth, ad impressionare è la linea di canto-declamazione, la quale, nei limiti del fisiologico depotenziamento dei mezzi vocali, è un saggio raffinatissimo di fraseggio, di attenzione al testo, letterario e musicale, e a ciò che tra i due si cela: la Klytämnestra della Herlitzius vive nelle pieghe più piccole e nascoste del suo personaggio. Se i suoni delle note gravi non possono più vantare, rispetto al passato, l’adeguato sostegno della vocalità, a sostenerle oggi provvedono la smisurata intelligenza interpretativa e il magnetismo dell’interprete.

Non soltanto perché giocoforza raffrontata con le profonde interpretazioni di Merbeth e Herlitzius, quella di Elisabeth Teige, che veste i panni di Chrysothemis, appareintrinsecamentepoco plastica, uniforme e compassata nei tratti: vocalità tendenzialmente corretta e fresca, ma dal peso specifico non del tutto adeguato alla parte.

Seguendo l’ordine di locandina, l’Aegisth di John Daszak si nota per la precisione e lo squillo vocale, nonché per le eccellenti doti di attore. Ha buon potenziale vocale e bel timbro l’Orest di Łukasz Goliński, tuttavia l’interprete è raramente visibile: eccessivamente compassato nell’interpretazione vocale e in quella scenica, risulta poco coinvolgente nell’incontro con la sorella Elektra, uno dei vertici del teatro musicale di Richard Strauss.

Nel complesso ben assortiti i ruoli secondari.

Per dovere di cronaca, si citano il tutore di Oreste di Giuseppe Esposito, la confidente di Chiara Polese, l’ancella dello strascico di Anna Paola De Angelis, la sorvegliante di Valeria Attianese, la prima ancella di Antonella Colaianni, la seconda ancella di Valentina Pluzhnikova, la terza ancella di Arianna Manganello, la quarta ancella di Regine Hangler, la quinta ancella di Miriam Clark, un giovane servo di Andrea Schifaudo, un vecchio servo di Simonas Strazdas, le sei serve di Lucia Gaeta, Franca Iacovone, Linda Airoldi, Sabrina Vitolo, Takako Horaguchi e Deborah Volpe.

Infine, ciò che si è già visto e che continua ad interessare: lo spettacolo.

Per questa Elektra risulta difficile scindere la regia dalla scenografia: nello spettacolo firmato da Klaus Michael Grüber, e ripreso da Ellen Hammer, regista e scenografo apparvero, sin dall’esordio del 2003, tra loro del tutto complementari: la regia era ed è modellata sull’impianto scenico di Anselm Kiefer. Non si stenta a credere e ad intuire che lo spettacolo fosse costruito, grazie a una di quelle felici intuizioni dell’allora sovrintendente del San Carlo Gioacchino Lanza Tomasi, sull’esigenze artistiche del pittore e scultore tedesco e che la regia di Grüber via sia stata poi “assemblata” sopra. Ciò che resta intatto, confortato dal soccorso pronto e nitido del ricordo, rispetto a ventuno anni fa è quell’indefinibile senso di angoscia per la tragedia incombente che sovrintende alla partitura sin dal primo accordo e così ben reso da Anselm Kiefer, Klaus Michael Grüber e dalle luci di Guido Levi.

Le scene e costumi, entrambi di Kiefer, restituiscono l’idea di un derelitto paesaggio industriale post moderno, ma che può leggersi anche come una suggestiva allusione e reinvenzione delle rovine della reggia degli Atridi di Micene, teatro della vicenda narrata da Sofocle.

Anselm Kiefer, ed è questa la forza di questo allestimento che appare ancor oggi tragicamente contemporaneo, ci conduce in un mondo devastato, in macerie, nel quale il senso di incipiente catastrofe aleggia sinistramente, anche grazie al misurato e sapiente gioco delle luci di Guido Levi, ora riprese da riprese da Fiammetta Baldiserri, con le torce che nei momenti di più alta intensità drammatica sono impugnate dagli stessi personaggi in scena. Kiefer riesce a rendere il senso della catastrofe ponendo in scena una poderosa impalcatura, dal materiale grezzo, di cemento usurato: la dimensione scenografica diventa, quindi, parte integrante della narrazione e specchio della psiche dei protagonisti. Il disfacimento è interiore ed esteriore. Anche i costumi recano i segni e i segnali della fine: vesti essenziali, logore, atemporali, che quasi si fondono, per affinità cromatica, con gli elementi scenografici.

Il disegno registico, purtroppo non originario (Klaus Michael Grüber ci ha lasciati prematuramente nel 2008), procede per sottrazione: si avverte la consapevolezza di essere ancillare all’elemento visivo e non vi si oppone. Movimenti essenziali, ben calibrati, ma a far la differenza, più che i suggerimenti di Ellen Hammer, è l’arte scenica dei protagonisti, in particolare di Ricarda Merbeth ed Evelyn Herlitzius, due autentiche fuoriclasse anche nella recitazione. Nel disegno registico, ad ogni modo ben organizzato sull’imponente impianto scenografico, Grüber pone l’accento sulla vicenda psicologica di Elektra: è il centro di alienazione e la fonte inestinguibile di vendetta. Nell’economia dei movimenti e delle interazioni tra personaggi, Orest, Klytämnestra, Chrysothemis ed Aegisth prendono luce, ombra, vita e morte da Elektra.

La vorticosa, orgiastica danza finale di Elektra dissolve le nubi del delirio nel quale ci hanno ingabbiato Sofocle, Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss, liberando fragorosi e prolungati applausi per tutti gli artefici dello spettacolo.

Successo convinto, come ventuno e come sette anni fa.


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