La rivincita del vaso di coccio
di Roberta Pedrotti
Terzo titolo del Festival Verdi 2024, La battaglia di Legnano si fa apprezzare nella concertazione di Diego Ceretta e nella regia di Valentina Carrasco.
PARMA, 29 settembre 2024 - Dopo Macbeth e Un ballo in maschera, prima di Attila, La battaglia di Legnano rischia di far la fine del vaso di coccio fra i vasi di ferro. Non ce ne voglia il sommo Verdi, che ha fatto come sempre un lavoro eccellente per sintesi e definizione, ma trovandosi anche con l'unico testo di stretta contingenza politica non trova occasioni per attingere a quell'umanità universale che innerva la sua produzione. Il libretto di Cammarano è un proclama risorgimentale (l'unico, in senso stretto, del catalogo verdiano) tutto Dio Patria e Famiglia: si prega spesso, ancor più spesso s'invoca l'amor patrio, il tenore pensa alla mamma, baritono e soprano al pargoletto cui tramandare i loro valori. All'inizio del 1849, Pio IX ha lasciato l'Urbe e sta per nascere Repubblica Romana, il cui futuro triumviro Mazzini presenzia alla prima: benché il progetto nascesse in realtà per Napoli e il debutto al Teatro Argentina sia più che altro un ripiego da una censura ostile a un contesto politicamente accogliente, La battaglia di Legnano assume quasi il carattere di cantata celebrativa. Si tratta, insomma, di un bel nodo da sciogliere per direttori e registi, con testo che sa di manifesto ideologico più che di teatro e una musica che coglie l'attimo per sperimentare soprattutto in vista di frutti futuri.
Sulla scena, il lavoro di Valentina Carrasco appare forse meno esplosivo di altre volte nel concetto, ma pure più compatto e risolto, sviluppando bene un assunto chiaro e semplice: il mito della battaglia di Legnano alimenta un sentimento nazionale propellente del Risorgimento fino alla Grande Guerra (considerata anche la quarta guerra d'indipendenza) e quindi non si tratta di rappresentare la storia medievale, ma di rappresentarne l'eco, di intrecciarla ai tempi che l'hanno presa a modello, fino alle propaggini più pericolose e distorte. Così i costumi di Silvia Aymonino mescolano fogge del 1176 ad altre più recenti: Lida fa pensare ad Anita Garibaldi, i soldati già alle trincee del Carso, senza iati stilistici e anzi in studiata armonia cromatica. La guerra è sporca e può diventare guerriglia, i combattenti, uomini e donne, vivono in simbiosi con i loro cavalli, che ora rievocano un'iconografia epica, ora la crudeltà del conflitto sugli innocenti. Si proiettano dettagli della Battaglia contro i Veienti e i Fidenati del cavalier d'Arpino dei Musei Capitolini, si monta in sella come statue equestri ricordando immagini cavalleresche a partire da Ronconi e Pizzi, ma i simulacri che diventano carcasse accatastate rimandano anche a quella meravigliosa rappresentazione della rivoluzione che è il Guillaume Tell secondo Graham Vick. Un apparato simbolico, insomma, ben riconoscibile e consolidato che sviluppa una lettura critica volta a non demolire tout court la buona fede ideologica mazziniana, ma a mostrarne pure il duro rovescio della medaglia. Le scene di Margherita Palli - probabilmente studiate anche nell'ottica della coproduzione con Bologna - dimostrano che nello spazio teatrale la qualità non è per forza direttamente proporzionale alla quantità. La scenografa gioca in sottrazione, sembra farsi invisibile ma c'è, nei vuoti (che tali non sono, grazie anche alle luci di Marco Filibeck) come nell'apparizione di elementi come la scuderia dove si colloca il finale del terzo atto o in quella rete metallica che muta consistenza a seconda dell'illuminazione e non ripete il cliché del velario anni '90, rinnovato semmai quale parte attiva della scena.
Dal podio, Diego Ceretta coglie benissimo la peculiarità di quest'opera, con una misura che ne rende la solennità e le passioni senza trasformarle in retorica, cura le forme più convenzionali (quasi stranianti nel loro apparire talora serene) e quelle più elaborate. Il colore della scena dei Guerrieri della Morte in apertura del terzo atto conferma una saggia sensibilità alle tinte della strumentazione verdiana, che va di pari passo con uno stacco dei tempi parimenti accorto. Serio, preparato, da subito riconosciuto dalle istituzioni italiane e di conseguenza già parecchio impegnato, Ceretta non ha mai dato l'impressione di voler strafare e sta costruendo una propria personalità che si fa via via più riconoscibile, nel segno di un equilibrio e di una calligrafia sobria ed elegante.
Sulla base di queste premesse, tutto il cast si esprime con compatta efficacia. Antonio Poli non manca di farsi apprezzare per la luminosità di smalto e dizione, prestando ad Arrigo accenti sempre pertinenti nella baldanza patriottica e nei rovelli amorosi, eroico, irruente o elegiaco secondo i casi con vocalità sempre ben centrata e proiettata. Nei panni di Rolando Vladimir Stoyanov accusa una certa stanchezza ma non perde la sua classe, specie nel duetto “Digli ch'è sangue italico” con la Lida di Marina Rebeka. Il soprano lettone non esibirà forse più la disinvoltura con cui nel 2008 affrontava le asperità del Maometto II rossiniano, ma se anche non sono sempre perfette le colorature della cavatina si dipanano con piena consapevolezza, risolvendo la scrittura di questo primo Verdi con un bel piglio d'interprete abbinato alla finezza della musicista, evidente nella preghiera dell'ultimo atto. Da segnalare che la prova generale era stata sostenuta in sua vece da Alessia Panza, che nel ricevimento dopo la prima si è esibita nelle due arie di Leonora dal Trovatore e ha confermato di essere una delle artiste più interessanti della nuova generazione per la qualità vocale e la naturalezza del porgere.
Riccardo Fassi fa del Barbarossa non una specie di orco, ma un fiero condottiero nel pieno delle forze. Ad Alessio Verna è affidata la parte piccola ma cruciale dell'infido Marcovaldo e fanno buona figura anche i quattro interpreti selezionati dall'Accademia Verdiana: Arlene Miatto Albeldas è Imelda, Emil Abdullaiev e Bo Yang i consoli di Milano, Anzor Pilia lo scudiero e l'araldo.
Il coro con la sua maestra Gea Garatti Ansini e l'orchestra del Teatro Comunale di Bologna completano la locandina di uno spettacolo ben accolto dal pubblico. Per dovere di cronaca, bisogna ammettere che incomprensibile un bastian contrario nelle uscite finali c'è stato (e, no, non per la regista, come sovente sembra d'uso), ma archiviato l'episodio possiamo bene dire con soddisfazione che il vaso di coccio non ha patito la vicinanza dei vasi di ferro.