Dove regna Turandot?
di Giuseppe Guggino
Nell’anno delle celebrazioni pucciniane il Teatro Massimo di Palermo vara una nuova produzione ambientata da Alessandro Talevi in un contesto atemporale. Ordinari la direzione di Carlo Goldstein e il cast di solisti su cui emerge nettamente la notevole Liù di Juliana Grigoryan.
Palermo, 21 settembre 2024 - Dopo la pausa estiva (e una stagione estiva priva di appuntamenti di un qualche interesse) il Massimo di Palermo riapre le porte sul regno di Turandot, ma con la sede vacante, giacché il mandato del Sovrintendente è scaduto da qualche giorno senza che si ancora provveduto alla nuova nomina. Dal canto suo l’uscente Marco Betta, pur di facilitare la fumata bianca, non s’è peritato di dichiararsi urbi et orbi disponibile ad accogliere in anno di celebrazioni pucciniane la pucciniana Beatrice Venezi al timone artistico della Fondazione, senza però sortire l’effetto sperato, almeno sinora. Sicché di pucciniano al momento non rimane che il regno di questa Turandot, tradizionale ma non troppo.
Alessandro Talevi, regista del nuovo allestimento della Fondazione che pensiona a pochi anni di distanza quello dimenticabilissimo dell’inaugurazione della stagione 2019 (successivamente ripreso solo al Comunale di Bologna), declina infatti i tre atti nella scena fissa di Anna Bonomelli (che firma anche i costumi) in chiave atemporale ma priva di qualche riferimento ad un generico regime totalitarista dei nostri giorni. I praticabili interconnessi della scena su cui camminano solamente i solisti costringono le masse in una posizione di inferiorità, espediente teatrale che consente di conseguire facilmente l’effetto di saturazione. Dalle note di regia si apprende che Talevi si spiega le ragioni del gelo di Turandot come reazione al trauma di una violenza sessuale infantile, che accomuna il suo destino a quello dell’ava Lo-u-Ling. Il concetto fatica però a rendersi intelligibile nella realizzazione scenica e risulta semmai sufficiente a motivare la trasversalità di epoche nei costumi con la medesima trasversalità con cui la violenza sulle donne si perpetra. Alquanto oscura oltre che marginale è poi l’apparizione di Liù dopo la sua morte sul mausoleo di Lo-u-Ling sull’estremità destra della scena. Per il resto lo spettacolo sia dipana nell’alveo rassicurante di una recitazione tradizione, priva di particolari guizzi; al pari della lettura musicale di Carlo Goldstein che dal podio, con gesto tanto enfatico quanto indeterminato, ottiene un suono tutto schiacciato tra il mezzoforte e il forte, caratterizzato da impasti timbrici avari di nitore, attenuando così la caratura europea dell’estrema orchestrazione pucciniana, che necessiterebbe una ben diversa precisione rispetto a quella esibita in questa occasione dall’Orchestra e dal Coro del Massimo palermitano, quest’ultimo come sempre preparato da Salvatore Punturo.
A fronte di una concertazione improntata a tale cifra globale il Calaf di Martin Muehle non può che essere necessariamente muscolare, sebbene caratterizzato da una buona tenuta fino alla fine della serata. Altrettanto giocata sul metallo è la prova di Ewa Płonka, che però difetta non poco nel rendere comprensibile il testo intonato. Diametralmente opposta è la Liù di Juliana Grigoryan, voce ampia e ben proiettata ma non per questo vociferante, di pasta timbrica pregevole, capace di lavorare sovente di cesello, risultando così di gran lunga la migliore in campo.
Lussuosa la presenza di Giorgi Manoshvili impegnato come Timur così come buono è il livello delle maschere, affidate ad Alessio Arduini, Matteo Mezzaro e Blagoj Nacoski, rispettivamente Ping, Pong e Pang; se affidabile è il mandarino di Luciano Roberti non altrettanto può dirsi invece dell’imperatore di Cristiano Olivieri.
Sull’insieme imbastito sul binario dell’ordinarietà di cui si è detto l’elemento di interesse della serata (oltre la prova di Juliana Grigoryan) risiede nella scelta del finale di Franco Alfano nella rara versione integrale, che risulta musicalmente molto meno tremendo di quanto Toscanini non ritenesse e addirittura drammaturgicamente preferibile, non foss’altro perché il mutamento finale nell’animo della principessa di gelo è tanto più graduale quanto più plausibile.
Alla temperatura di una sala sold out e carente di refrigerazione non corrisponde quella degli applausi finali, non impari rispetto al valore artistico complessivo della serata.