I Puritani critici
di Giuseppe Guggino
Per la conclusione della stagione d’opera 2015 il Teatro Bellini di Catania sceglie di rappresentare I Puritani secondo l’edizione critica. Sebbene si tratti probabilmente di uno dei titoli più difficili della storia della vocalità, il quartetto capitanato da Shalva Mukeria si rivela ben assortito e convincente. Purtroppo il successo è azzoppato da un podio insufficiente rispetto alle finezze del più approfondito lavoro di orchestrazione mai varato dal cigno catanese.
Catania, 6 dicembre 2015 - A otto anni dalla prima esecuzione a Bergamo della partitura dei Puritani secondo l’accurata edizione critica di Fabrizio Della Seta, finalmente il titolo giunge anche al Teatro Bellini di Catania, che dell’edizione belliniana è co-finanziatore in quanto – giova ricordarlo – a differenza di altri compositori, Bellini non beneficia di un’apposita fondazione per le ricerche musicologiche.
La principale difficoltà nell’allestire il titolo risiede innanzi tutto nel reperire un quartetto all’altezza dei ruoli principali, che sono di massima difficoltà. Con la scelta di Shalva Mukeria per il ruolo di Arturo, solito a gravitare in aree siderali del pentagramma tenorile, si va sul sicuro perché è cantante dal timbro non eccezionale ma dalle risorse tecniche ragguardevoli che gli consentono il legato perfetto, delle agilità fluidissime e talvolta qualche smorzatura che risulta preziosa. In tutta la serata, dove ha anche l’occasione di mettersi in mostra cantando magnificamente una sezione lenta del terzetto con Enrichetta e Riccardo recuperata dall’edizione critica, la solidità non viene mai meno, eccezion fatta per un si naturale dalla scrittura insidiosa uscitogli un po’ scheggiato che fa rumoreggiare la sala, evidentemente non molto conscia di quanto mostruosamente improba sia la parte e di quanto poco o nulla valga l’episodio a fronte di una tenuta simile fino ai re acuti di “Credeasi misera”.
A Mukeria fa da sposa una Laura Giordano in stato di grazia che debutta il ruolo evidentemente preparato con grandissima cura; il lavoro di studio è palpabile e, sebbene il peso specifico possa risultare talvolta in debito, l’intelligenza dell’artista è quella giusta per rendere giustizia alla polacca del primo atto.
Anche il basso Dario Russo nel ruolo dello zio Giorgio conferma le impressioni molto positive che aveva destato nell’Anna Bolena di inaugurazione della stagione catanese [leggi la recensione].
Carmelo Corrado Caruso, sebbene di ascendenze non belcantistiche, è un baritono dall’emissione molto morbida e risulterebbe appropriato per Riccardo se non fosse per qualche agilità un po’ troppo faticosa che appanna una prestazione altrimenti di ottimo livello.
A completare funzionalmente il cast l’Enrichetta di Nidia Palacios (qui onerata da un terzettino in più rispetto all’edizione di tradizione) e il Walton padre di Davide Giangregorio, mentre troppo in affanno è parso Giuseppe Costanzo nella parte comprimariale di Sir Bruno.
Sull’edizione adottata e su quella realmente praticata molto e molto ancora dovrebbe dirsi. Partiamo dall’assunto di Fabrizio Della Seta (presente alle prove catanesi) che cura anche il pregevole saggio nel programma di sala; dal suo condivisibilissimo punto di vista scientifico ha poco senso parlare di una “edizione di riferimento” per l’opera, giacché andò in scena a Parigi il 24 gennaio 1835 sebbene compilata in parallelo a un’altra versione adattata su un quartetto per Napoli (formato da un soprano, due tenori e un basso) e le modifiche seguenti alla prima furono tante – nel corso del breve arco di vita rimasto al compositore – ma tutte di lievissima entità, per cui l’edizione critica tende a essere una sorta di “ipertesto” nel quale si possono innestare scelte di dettaglio differenti rispetto all’edizione di tradizione, ma pur sempre riconducibili alla volontà del compositore.
I passi macroscopici ripristinati, o quantomeno resi possibili dall’edizione, sono il citato cantabile del terzettino nel primo atto, uello del duetto Elvira-Arturo nel terzo atto con clarinetto e una stretta a due voci nel finale dell’opera nota in versione “apocrifa” per solo soprano mai scritta da Bellini (almeno non nella tonalità di impianto della versione parigina); in tutti e tre i casi si tratta di musica di primissimo ordine espunta dall’autografo solamente nel caso del terzettino e del finale. L’altra modifica macroscopica riguarderebbe l'ordine della scena della follia rispetto al duetto Giorgio-Riccardo, invertito dopo la prova generale dell’opera, fino ad allora concepita in due atti. Le modifiche di dettaglio (o versioni primitive) potrebbero riguardare armonie più audaci nell’aria di Giorgio o nell’uragano del terzo atto, una coda più lunga di tale introduzione orchestrale, qualche ripristino sull’uso delle sordine tra gli archi (in tal senso è illuminante una lettera di Bellini a Florimo che si conserva a San Pietro a Majella), la realizzazione della musica sul palco (l’organo o i legni per la preghiera oppure i legni in luogo dei corni nel tempo di mezzo del duetto Elvira-Arturo), l’uso di clarinetti traspositori tagliati in La nell’uragano (che si possono ascoltare nell’edizione di Amsterdam diretta da Carella) e svariati altri dettagli minimi.
Tanto minimi da non essere, purtroppo, tutti realizzati in ques'edizione catanese, diretta con mano piuttosto pesante da Fabrizio Maria Carminati. Delle tre riscoperte di cui sopra non si accoglie quella nel finale dell’opera; poi, lungi dall’integralismo dell’integralità, occorre lagnarsi della mano non lieve sui tagli (anche nelle ripetizioni dei cori) oltre che dell'insulsaggine di alcune espunzioni minime (quella nel recitativo brevissimo di Arturo al terzo atto, per esempio, mentre la scorciatura dell’ultimo tempo del duetto dopo il ripristino di “Da quel dì ch’io ti mirai” è ammessa in edizione critica dallo stesso Bellini); permane tra le versioni primitive quella di “Vieni fra queste braccia” con il re naturale anziché alterato che, seppur di piccola entità, risulta illuminante su come Bellini sapesse perfezionare sé stesso. Per il resto non pare segnalarsi null’altro nel clangore più totale su cui le voci devono faticare ad avere la meglio; e, se non fosse per l’indubbio fascino della strumentista, ci sarebbe da lagnarsi del fatto che quando il secondo flauto imbraccia l’ottavino pare di essere catapultati in un Nabucco d’antan. Poco o pochissimo senso ha mantenere lo slentato di tradizione nel concertato del finale primo, allorquando ci si attiene al testo scritto del soprano: nello stesso punto, fuor di edizione critica, il rallentando era funzionale invece a quell'effetto con cui Mariella Devia faceva venire giù i teatri, raddoppiando i legni all’acuto. Riesce a passare questo greve muro sonoro erto da Carminati la presenza del Coro che, come sovente accade al Bellini, anche sotto il nuovo direttore Ross Craigmile, è inappuntabile per compattezza, intonazione e precisione.
La parte visiva dello spettacolo si avvale dei bellissimi costumi di Francesco Esposito delle scenografie belle e dei fondali proiettati (meno belli) di Alfredo Troisi nonché di una regia – leggiamo dalle note nel programma di sala – concepita in poco tempo per "un’opera complessa e straordinariamente profonda" come I Puritani che, come è noto, da uesto punto di vista se la gioca con Don Carlos.
Successo molto caloroso, anche a sipario aperto e punte di entusiasmo (meritatissimo) alla ribalta, specie per la Giordano e Mukeria.