Il trionfo svelato
di Luigi Raso
La direzione illuminante, cesellata e teatralissima di Michele Mariotti porta in trionfo l'Aida in Piazza del Plebiscito con una compagnia di canto eccellente (Pirozzi, Rachvelishvili e Kaufmann protagonisti), capace di rivelare con dovizia di mezzi tutta la raffinatezza e tutte le sfumature del capolavoro verdiano.
NAPOLI, 29 luglio 2020 - Di vincitori in questa Aida, allestita dal Teatro San Carlo nell’enorme spazio di Piazza del Plebiscito a pochissimi giorni di distanza dal successo di Tosca (la recensione), ce ne sono molti: incontriamoli uno ad uno.
Il primo ad aver contribuito a vincere la scommessa di Aida in forma di concerto è il direttore Michele Mariotti che firma - al debutto in quest’opera - una delle migliori interpretazioni della propria fulgidissima carriera.
Proviamo a spiegare perché: che Mariotti sia tra i più interessanti direttori verdiani (e non solo) in circolazione è un dato conquistato sul campo e da tempo acclarato; tuttavia a stupire sono la maturità e il senso di compiutezza del primo approccio ad Aida, sbalorditivo per molteplici aspetti.
Analizziamone qualcuno. Il direttore marchigiano dimostra di aver metabolizzato l’insidiosa partitura, di conoscerla a fondo, battuta per battuta, come se la frequentasse da decenni; di Aida ha un’idea personale, ben definita e innovativa. Un visione che, partendo dall’esaltazione dell’aspetto intimistico e quasi cameristico che aleggia intorno alla tragedia del triangolo amoroso Radames - Aida - Amneris, si concilia magistralmente con l’aspetto trionfalistico della partitura, ma da Verdi stesso relegato alla Scena II del secondo atto, eppur ritenuto preponderante da certa tradizione esecutiva. Mariotti ci fa scoprire che, però, quello è un Trionfo effimero, che prelude all’evoluzione del dramma, vissuto e racchiuso nella solitudine dei personaggi.
Seguendo questa sintesi, sin dal Preludio l’opera è immersa in un’atmosfera notturna, rarefatta, di macerato e trepidante intimismo; l’ascolto attento rivela l’attenzione maniacale per i particolari, il rispetto dei segni dinamici e d’espressione che Verdi scrive e prescrive e che (ancora!) troppo spesso vengono spianati con eccessiva superficialità. Si ascoltano - certamente non nelle migliori condizioni acustiche possibili: siamo pur sempre in uno spazio all’aperto e con amplificazione - i piani e pianissimi, i crescendo e i diminuendo, particolari che ci inducono a immaginare quale meraviglia sarebbe stato l’ascolto all’interno di un teatro. L’occasione è solo rimandata: nel febbraio 2021, all’Opèra Bastille di Parigi, Mariotti riproporrà Aida insieme a Kaufmann, Radvanovsky, Garanča e Tézier (leggi l'intervista).
Proseguendo nell’analisi, notiamo che Mariotti sceglie i tempi più opportuni, perfetti nel garantire coerenza drammatica a tutta l’opera: è un’Aida tesa come un arco, che procede spedita, e senza rinunciare a sostenere le ragioni del canto; anzi, l’orchestra di Mariotti, canta, sussurra, declama e tuona insieme a Radames, Amneris, Aida e Amonasro. Non c’è stringendo o ritardando che non sia coerente con la visione d’insieme; quando Mariotti rallenta o adopera, sempre in modo appropriato, il rubato è attento a che il pnèuma che soffia all’interno della partitura resti sempre palpitante.
E così si ascoltano accenti (stupendi quelli dell’introduzione strumentali alla fase più drammatica del duetto Aida - Amonasro del III atto “Padre! A costoro schiava non sono…”) che rivelano un’Aida “nascosta”, priva di incrostazioni e appesantimenti, vitale e, volendo adoperare un unico aggettivo, contemporanea. In quel momento, uno dei più drammatici dell’opera, Aida è lacerata tra amor di patria, amore per Radames e obbedienza agli ordini del padre. L’orchestra di Mariotti ci fa sentire e percepire il palpito del tormento interiore della schiava etiope.
Alla Danza di piccoli schiavi mori imprime scintillio ritmico e luminosità sonora, così come ai ballabili che precedono il Trionfo, momento nel quale si crea una sorprendente coesione tra coro e orchestra. È un Trionfo solenne, ma che rifugge dalla tentazione di compiacersi in sonorità telluriche delle percussioni o di ottoni fracassoni; si preserva, invece, un perfetto equilibrio fonico tra le sezioni orchestrali.
E poi c’è l’atto III: un bozzetto ad acquerello sospeso in notturno al chiaro di luna sulle rive del Nilo, nel quale il bellissimo impasto tra legni e archi creano effetti sonori stupefacenti.
Nel finale dell’opera, laddove Verdi prosegue nelle trasfigurazioni in pianissimo della morte (si pensi a Simon Boccanegra, La forza del destino, e, successivamente, Otello), Mariotti rarefa l’orchestra, allarga leggermente i tempi, fa librare nel cielo napoletano il canto sinuoso di Kaufmann e Pirozzi, invitando l’orchestra ad accarezzare (il suo gesto è quanto mai eloquente) gli ultimi sussulti degli sfortunati amanti.
In definitiva, quella di Mariotti è una lettura improntata a spiccata teatralità, rivelatrice di particolari dinamici ed espressivi che consentono di godere di un’Aida innovativa, lontana dalla trita retorica routinier trionfalistica e fracassona.
È un’Aida nella quale si susseguono momenti lirici e di intensamente drammatici, in cui convivono gli echi del Verdi battagliero degli inizi (“Guerra! Guerra!”), quelli della maturità artistica, e dai quali germogliano il linguaggio di Otello e le gemme strumentali e lo scintillio orchestrale e ritmico di Falstaff.
Una concezione di Aida illuminante al pari di quella della Bohème diretta dallo stesso Mariotti a Teatro Comunale di Bologna nel gennaio del 2018.
L’orchestra del San Carlo, alla quale il lungo lockdown non ha minimamente incrinato la coesione interna, compattezza e cesello sonori, è perfetta nell’assecondare le indicazioni che Mariotti - con una gestualità che sembra invitare più che ordinare, e che sempre più ricorda quella dell’indimenticabile Claudio Abbado - chiede alla compagine orchestrale.
Il suono è curato e compatto in tutte le sezioni; eccellente la prova degli ottoni e delle trombe egiziane nella scena del Trionfo. Merita un complimento la prima tromba di Fabrizio Fabrizi, il cui suono, sempre distinguibile e dal colore argènteo, spicca in tutti gli interventi.
Il Coro del San Carlo, diretto da Gea Garatti Ansini, conferma la buona e affidabile prova già ascoltata in Tosca: risulta compatto, tendenzialmente preciso e di buon suono.
Passando a esaminare il cast si resta stupiti dalla vocalità debordante e torrenziale dell’Amneris di Anita Rachvelishvili, la quale impressiona per il colore estremamente brunito da autentico mezzosoprano drammatico, per l’ampiezza del registro grave, scurissimo e avvolgente. A fronte di lussuosi mezzi vocali, a colpire è anche l’interpretazione sfaccettata: è un’Amneris di grande temperamento, innamorata, gelosa, vendicativa e, infine, implorante. Non manca nessuna declinazione della complessa psicologia della figlia del Re d’Egitto, ma ogni minima piega è esaltata da mezzi vocali debordanti, impressionanti per volume, colore, ampiezza, dominati da sicuro dominio tecnico a servizio di un’interpretazione incandescente per espressività e acume. Memorabile l’intera Scena del Giudizio e, in particolare, l’invettiva ai Sacerdoti (“Sacerdoti: compiste un delitto!”) che il mezzosoprano georgiano pone a coronamento di una prova magistrale: convince per la spontaneità di una linea di canto che, grazie a una vocalità naturalmente possente e spontanea, non necessita di forzature o di artificiosi ispessimenti sonori.
La carismatica interpretazione di Anita Rachvelishvili al termine viene salutata con calorosissimi e meritatissimi applausi.
L’Aida di Anna Pirozzi per compattezza dei registri vocali, ampiezza vocale, bellezza del timbro non teme il confronto con l’Amneris della Rachvelishvili.
Pur in possesso di voce ampia, ben timbrata, Anna Pirozzi, alleggerendo l’emissione, ottiene piani e pianissimi ben sostenuti e di grande intensità, i quali contribuiscono a delineare un’Aida dolente, a tratti trasognata (“O cieli azzurri), remissiva e tormentata nel piegarsi all’autorità del padre Amonasro. Il suo spessore vocale è naturalmente tanto ampio che a volte sembra risultare quasi sovrabbondante rispetto a quanto richiesto dalla parte, eppure il dominio della tecnica le consente di governare con sicurezza la linea di canto, nel fiato, nel legato e nelle dinamiche.
L’interpretazione della Pirozzi, soprano proiettato e acclamato nelle parti più impervie dell’intero repertorio, è partecipe di quella visione intimistica e ricca di sfumature che Mariotti ha di Aida: l’intesa tra soprano e direttore è percepibile sin dall’inizio, ma è nel finale che Pirozzi, Kaufmann e Mariotti - con in sottofondo il salmodiare plumbeo e funerario del “Pace t’imploro, pace, pace, pace!” dell’Amneris di Anita Rachvelishvili - che la sintonia espressiva raggiunge la vetta più alta.
Perentorio, dotato di bel timbro scuro, è l’Amonasro di Claudio Sgura: vocalità genuina, generosa, fraseggio attento ai segni dinamici e espressivi della parte delineano un Amonasro autorevole e sicuro, mai sopra le righe e che si fa ben notare sin dalla sortita “Questa assisa ch’io vesto”, cantata con accento regale. Il baritono salentino è particolarmente intenso nel duetto con la figlia nel terzo atto dove sfoggia un bel legato nella frase “Pensa che un popolo vinto straziato per te soltanto risorger può!”.
Ieratico e dotato di bel timbro e solida vocalità il Ramfis di Roberto Tagliavini, così come il Re d’Egitto di Fabrizio Beggi, dalla voce ampia e timbrata; colpisce per purezza di timbro da autentico soprano lirico la Sacerdotessa di Selene Zanetti, la quale interpreterà Mimì nella Bohème che inaugurerà la prossima stagione lirica del San Carlo. Efficace e funzionale all’economia generale della rappresentazione è il Messaggero di Gianluca Floris.
Last but not least il Radames di Jonas Kaufmann che (finalmente!) debutta a Napoli interpretando un’opera lirica. Le precedenti presenze del tenore bavarese al San Carlo erano limitate a una Die Schöpfung dispersa nella notte dei tempi (2004) e a un recital di canzone napoletane e italiane nel 2016.
Così come Anna Netrebko per la precedente Tosca, Jonas Kaufmann è il fulcro di questa Aida in Piazza del Plebiscito.
La tecnica vocale del divo è argomento estremamente divisivo tra i melomani e “vociomani”; ci limitiamo ad affermare che Kaufmann ha l’innegabile merito di essere riuscito a costruirsi una tecnica di emissione sicuramente eterodossa e per molti aspetti discutibile, ma al servizio delle proprie spiccate potenzialità espressive. Si potrà legittimamente obiettare, dunque, che le mezzevoci siano emesse in falsetto, che la posizione del suono sia tendenzialmente indietro, che la voce tenda a volte a stimbrarsi. Tutto vero. Ciò che ci interessa è, però, il risultato interpretativo: e nel caso di Kaufmann, complice il timbro ammaliante, caldo e brunito, esso è innegabilmente suggestivo, di notevole espressività e introspezione, al di là delle riserve relative agli aspetti squisitamente tecnici.
Sin da “Se quel guerriero io fossi!”, spaurito e dubbioso, Kaufmann dimostra di essere in perfetta sintonia con la visione che Mariotti ha di Aida: il suo è un Radames innamorato, trasognato, che vagheggia la sua amata. Il “Celeste Aida” è sussurrato, dal fraseggio sfumato, rispettoso delle prescrizioni dinamiche che Verdi pretende, e con il si bemolle del “trono vicino al sol” sfumato in pianissimo, dopo una messa di voce.
Il Radames di Jonas Kaufmann è, anche, molto più che un giovane innamorato: non manca di piglio guerriero e decisionista quando la parte lo richiede. Sono stentorei il “Nume, che duce ed arbitro” e il “Possente Fthà!”; nel duetto del III (“Pur ti riveggo, mia dolce Aida!”) il tenore sintetizza un canto sfumato ed eroico, dagli accenti malinconici e amorosi. Alleggerisce e stempera in un piano su “il ciel dei nostri amori”, per poi chiudere l’atto con un “Sarcedote, io resto a te” possente e tenuto a lungo. Il canto di Kaufmann si fa più arroventato nel duetto con Amneris nell’atto IV, in cui sfoggia acuti squillanti che anticipano le frasi lavorate di cesello, sospirate, di “La fatal pietra sovra me si chiuse”.
Al termine applausi calorosi e prolungati sono equamente tributati a tutti gli artefici dell’opera, con punte di vivo entusiasmo per la stratosferica Amneris di Anita Rachvelishvili e per la direzione di Michele Mariotti.