In prima tv l'apertura del Festival Verdi 2021
IN PRIMA VISIONE SU RAI5 E RAIPLAY UN BALLO IN MASCHERA (GUSTAVO III) DAL XXI FESTIVAL VERDI
Rai5, RaiPlay giovedì 14 ottobre 2021, ore 21.15
È lo spettacolo che il grande regista ingleseGraham Vick, recentemente scomparso, ha ideato per inaugurare ilXXI Festival Verdi e che è stato portato in scena daJacopo Spireilo scorso 24 settembre alTeatro Regio di Parma. ÈUn ballo in maschera(Gustavo III)di Giuseppe Verdi, diretto per la prima volta da Roberto Abbado nell’edizione con il libretto ad ambientazione svedese, così come concepito da Verdi per il debutto a Roma, prima che i censori pontifici imponessero la trasposizione della vicenda nella Boston coloniale.
L’opera, per gentile concessione di Dynamic, è trasmessa daRai Culturain prima visione su Rai5e su RaiPlaygiovedì 14 ottobre 2021 dalle ore 21.15.
Il cast vocale riluce della presenza di Piero Pretti (Gustavo III), Anna Pirozzi (Amelia), Amartuvshin Enkhbat (al debutto nel ruolo di Conte Gian Giacomo di Anckastrom), Anna Maria Chiuri (Ulrica), Giuliana Gianfaldoni, (al debutto nel ruolo di Oscar e per la prima volta al Teatro Regio e al Festival Verdi), Fabio Previati (Cristiano), Fabrizio Beggi (Ribbing, per la prima volta al Teatro Regio e al Festival Verdi), Carlo Cigni (Dehorn), Cristiano Olivieri (Ministro di Giustizia), Federico Veltri (Un servo del Conte, già allievo dell’Accademia Verdiana, per la prima volta al Teatro Regio e al Festival Verdi). Filarmonica Arturo Toscanini, Coro del Teatro Regio di Parma, preparato da Martino Faggiani. Le parti della banda in palcoscenico sono interpretate dall’Orchestra Rapsody.
PARTNER E SPONSOR
La Stagione del Teatro Regio di Parma e il Festival Verdi 2021 sono realizzati grazie al contributo diComune di Parma, Parma Capitale Italiana della Cultura 2021, Ministero della Cultura, Reggio Parma Festival, Regione Emilia-Romagna. Major partner Fondazione Cariparma. Mainpartners Chiesi, Crédit Agricole. Media partner Mediaset. Mainsponsor Iren, Barilla, Parmacotto. Sponsor Opem, Dallara, Unione Parmense degli Industriali. Sostenitori Ares, Dulevo, Mutti, Sicim, Agugiaro&Figna, La Giovane, Parmalat, Grasselli, Glove ICT, Poliambulatori Dalla Rosa Prati, GHC Garofalo Health Care, Sarce, CePIM, Oinoe, Colser Aurora Domus. Legal counselling Villa&Partners. Con il supporto di “Parma, io ci sto!”. Advisor AGFM. Hospitality Partner Novotel. Con il contributo di Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Opera Europa, Fondazione Monte Parma, Camera di Commercio di Parma, Ascom e Ascom Confcommercio Parma Fondazione. La Stagione Concertistica e AroundVerdi sono realizzati da Società dei Concerti di Parma, con il sostegno di Chiesi, in collaborazione con Casa della Musica. ParmaDanzaè realizzata in collaborazione con ATER Associazione Teatrale dell’Emilia-Romagna e Arci Caos. Il Concorso Voci Verdiane è realizzato in collaborazione con Comune di Busseto, Concorso Internazionale Voci Verdiane Città di Busseto, Verdi l’Italiano. Partner istituzionali La Toscanini, Teatro Comunale di Bologna. Partner artistici Coro del Teatro Regio di Parma, Società dei Concerti di Parma, Conservatorio “Arrigo Boito” di Parma, Barezzi Festival. Tour operator partner Parma Incoming. Radio Ufficiale Radio Monte Carlo. Sostenitori tecnici Graphital, Codarini Tuega, Cavalca, IgpDecaux, MacroCoop, Milosped, Andromeda’s, De Simoni, Azzali editori, Doyle. Digital counselling Unsocials. La promozione internazionale del Festival Verdi 2021 è realizzata dal Teatro Regio di Parma in collaborazione con Italia – Italian national tourist board, Istituti italiani di cultura, Destinazione Emilia, Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna, Emilia-Romagna APT Servizi, Assessorato al Turismo e Commercio del Comune di Parma. L’immagine esclusiva del Festival è il ritratto di Giuseppe Verdi realizzato a matita da Renato Guttuso negli anni ’60, donato al Teatro Regio di Parma dall’Archivio storico Bocchi e concesso da Fabio Carapezza Guttuso ©Renato Guttuso by SIAE 2021.
Teatro Regio di Parma
UN BALLO IN MASCHERA (GUSTAVO III)
Musica GIUSEPPE VERDI
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma da Gustave III ou Le bal masqué di Eugène Scribe
Edizione critica della partitura a cura di Ilaria Narici
The University of Chicago Press, Chicago e Casa Ricordi, Milano
Il libretto utilizzato è quello ad ambientazione svedese, così come concepito da Verdi per il debutto a Roma, prima che i censori pontifici imponessero la trasposizione della vicenda nella Boston coloniale.
Personaggi |
Interpreti |
Gustavo III |
PIERO PRETTI |
Amelia |
ANNA PIROZZI |
Il Conte Gian Giacomo Anckastrom |
AMARTUVSHIN ENKHBAT |
Ulrica |
ANNA MARIA CHIURI |
Oscar |
GIULIANA GIANFALDONI |
Cristiano |
FABIO PREVIATI |
Ribbing |
FABRIZIO BEGGI |
Dehorn |
CARLO CIGNI |
Il Ministro di Giustizia |
CRISTIANO OLIVIERI |
Un Servo del Conte |
FEDERICO VELTRI |
Maestro concertatore e direttore
ROBERTO ABBADO
Regia JACOPO SPIREI
dal progetto di GRAHAM VICK
Scene e costumi
RICHARD HUDSON
Luci
GIUSEPPE DI IORIO
Movimenti coreografici
VIRGINIA SPALLAROSSA
FILARMONICA ARTURO TOSCANINI
ORCHESTRA RAPSODY
CORO DEL TEATRO REGIO DI PARMA
Maestro del Coro MARTINO FAGGIANI
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
SINOSSI
Atto primo
Nel palazzo del re di Svezia Gustavo III è in programma, per il giorno successivo, un ballo in maschera: leggendo la lista degli invitati alla festa appena portatagli dal paggio Oscar, il re nota con emozione che ci sarà anche Amelia - moglie del suo fedele segretario e miglior amico Ankastrom - di cui è innamorato (“la rivedrà ma splendida”). Questi sopraggiunge per rivelargli le trame di congiura che si stanno consumando contro di lui, esortandolo alla prudenza perché il suo popolo ha bisogno di lui (“alla vita che t’arride”). Gustavo, sulle prime timoroso che Ankastrom sapesse del suo amore per Amelia, non bada a quelle chiacchiere. Anzi, imbaldanzito, decide non solo di non firmare il bando contro la maga Ulrica, ma, convinto dal parere di Oscar (“pallida pallida”), pensa di farle uno scherzo invitando tutti nell’antro dell’indovina per ascoltare le sue profezie, fra la preoccupazione di Ankastrom che intravede in quell’idea un’occasione offerta ai congiurati. Nell’abituro di Ulrica arriva la folla, con Gustavo nascosto nei panni di un pescatore. La maga invoca il demonio (“re dell’abisso affrettati”). Le si avvicina il marinaio Cristiano per sapere se il futuro gli riserva una ricompensa ai servigi per il re (“su, fatemi largo”) e Ulrica gli predice una promozione e del denaro. Il re, senza essere visto, infila nella borsa di cristiano un foglio e delle monete. Grande è lo stupore quando l’uomo li scopre: la maga ha avuto ragione! Annunciata da un servo di Ankastrom, arriva Amelia per chiedere a Ulrica di scioglierla da una passione illecita che la affligge. L’indovina le consiglia di raccogliere un’erba magica a mezzanotte nel campo dei condannati a morte (“della città all’occaso”). ma Gustavo vede e sente tutto e decide che quella notte seguirà la sua amata. Poi sfida Ulrica e si fa leggere il futuro (“dì tu se fedele”). Dopo avergli visto la mano, la maga lo allontana turbata e, solo dopo aspre sollecitazioni, gli rivela che sarà ucciso per mano di un amico e l’amico sarà il primo che gli stringerà la mano. Il re si meraviglia (“è scherzo od è follia”) e per dimostrare la fallacia del vaticinio, porge la mano a chiunque, ma tutti si allontanano scaramantici. Entra Ankastrom, che gli va incontro, lo saluta stringendogli la mano. Tutti tirano un sospiro: costui è al di sopra di ogni sospetto: è il suo migliore amico. Il re svela la propria identità, revoca il bando a Ulrica e il popolo lo acclama.
Atto secondo
In una notte di luna velata, nel sinistro campo nei dintorni di Stoccolma, Amelia angosciata e spaventata si aggira alla ricerca dell’erba magica che le ha indicato l’indovina (“ma dall’arido stelo divulsa”). Un rumore. Una figura. Un attimo di terrore. Ma è Gustavo, che con accorate e insistenti parole di seduzione riesce a farle confessare il suo amore (“non sai tu che se l’anima mia”). Proprio quando i due si abbracciano, sopraggiunge un’altra persona. È Ankastrom. Amelia si vela il volto all’istante per non essere riconosciuta dal marito, arrivato fin lì per avvertire il suo re di un grave pericolo: alcuni congiurati tramano a poca distanza contro di lui. Lo esorta alla fuga indicandogli la via più sicura. Gustavo si trova ora fra incudine e martello: allontanare Ankastrom e rischiare la vita o abbandonare Amelia? Supplicato dall’amata e in imbarazzo per la circostanza tutt’altro che eroica, decide di accogliere la proposta di Ankastrom e mettersi in salvo (“odi tu come fremono cupi”), ma per assicurare salvezza ad Amelia la consegna proprio a Ankastrom con la promessa di scortarla fino alle porte della città senza mai rivolgerle la parola e guardarla in volto. Ankastrom compie con zelo la consegna dell’amico, ma nel rientrare incontra i congiurati, delusi di aver trovato lui e non Gustavo, che gli chiedono almeno di vedere chi sia l’amante del re (“ve’ se di notte”). Ankastrom si oppone ed estrae la spada. In quel momento la luna squarcia le nubi, la notte si illumina e Amelia, nel cercare istintivamente di proteggere il marito dall’assalto armato, perde il velo. Sgomento, Ankastrom riconosce la moglie. I congiurati ridono, credendo che il marito abbia portato la moglie ad amoreggiare in campagna. Ma Ankastrom non ha nulla da ridere, anzi, si avvicina ai congiurati e li convoca per l’indomani a casa sua. Poi mantiene la promessa fatta al re e, strattonando per il braccio la moglie, la riaccompagna fino alle porte della città senza rivolgerle parola.
Atto terzo
Nel suo studio, Ankastrom rimugina sull’accaduto ed è più che mai deciso a punire Amelia con la pena estrema. Riluttante e con fastidio, dopo averla accolta e aver ascoltato le sue suppliche, le concede di abbracciare il figlio per l’ultima volta (“morrò, ma prima in grazia”). Quella scena lo fa pensare. Una volta rimasto da solo nella propria mestizia, capisce infatti che non è Amelia la persona da colpire per lavare l’offesa del tradimento, ma Gustavo, l’uomo che ha rotto in quel modo la loro amicizia e macchiato il suo matrimonio (“e sei tu”). Ma ecco che entrano Dehorn e Ribbing, convocati da Ankastrom, che si dichiara, con loro grande sorpresa, non già pronto a rivelare la loro congiura, ma a unirsi ai loro piani omicidi verso il re. Una sola richiesta avanza in cambio della loro fiducia: il privilegio di essere egli stesso a colpire a morte Gustavo. Dehorn e Ribbing non sono però disposti a rinunciare a questa soddisfazione, dal momento che ciascuno di loro intende vendicarsi personalmente di gravi torti che Gustavo avrebbe inflitto alle loro famiglie (“tutti stretti alla fede d’un patto”). Ankastrom propone allora di affidarsi alla sorte per decidere chi sarà il sicario: approfitta del rientro casuale di Amelia e fa estrarre beffardamente proprio a lei, senza rivelarle le sue trame, il biglietto con il nome del destinato. Ankastrom esulta quando scopre che il nome estratto è proprio il suo. Quando poi Oscar entra con l’invito per Ankastrom e signora al ballo in maschera, i congiurati capiscono l’occasione che gli si presenta su un piatto d’argento, fra il sospetto e la disperazione di Amelia. Intanto Gustavo ha deciso di porre una fine ai propri sentimenti per Amelia. (“ma se m’è forza perderti”). Entra Oscar con un biglietto anonimo per il re: è la scrittura di una donna che lo avverte di non recarsi al ballo perché rischia di essere ucciso. Gustavo non teme però un pericolo di questo genere e decide di andare comunque, per poter almeno rivedere per l’ultima volta la sua Amelia. Nella sala da ballo del palazzo, nel cuore della festa in maschera, si aggira Ankastrom con lo scopo di inviduare il travestimento sotto il quale si cela il re. Riesce a farselo indicare da Oscar, dapprima riluttante, con la scusa di gravi informazioni da riferire urgentemente al sovrano. Intanto Amelia, anch’ella in maschera, si è avvicinata a Gustavo per pregarlo di mettersi in salvo: inizialmente convinto che si tratti della misteriosa donna del biglietto, solo quando le si spezza la voce dall’emozione riconosce in lei la sua amata. Ma è tardi: non fa in tempo a comunicarle la sua decisione di rimpatriarla insieme al marito e a dirle addio che su di lui si avventa il pugnale di Ankastrom. In sala piombano il silenzio e raccapriccio. In punto di morte, Gustavo riesce a rivelare di non aver mai attentato alla purezza di Amelia e di aver deciso di rinunciare a lei per amor d’amicizia. Orrore generale, ma più di tutti quello di Ankastrom, che si rende conto del gesto abominevole che ha appena compiuto.
L’OPERA IN BREVE
Giuseppe Martini
Il 7 febbraio 1857, dopo un rinvio di un anno a causa di problemi di diritti su un possibile allestimento di Re Lear, Verdi accetta di firmare un nuovo contratto con il Teatro di San Carlo di Napoli per un’opera da mettere in scena a gennaio o febbraio 1858. Il tempo di mettersi alle spalle le esperienze di Simon Boccanegra (giugno 1857) e Aroldo (agosto), e Verdi si trova subito ad affrontare il problema del soggetto per Napoli, che ora non è più Re Lear, scartato per vari motivi, e neppure El tesorerodel Rey di António García Gutiérrez o Ruy Blas di Hugo a cui aveva pensato più seriamente, bensì Gustave III di Eugène Scribe, un dramma scritto nel 1833 per Daniel Auber in cui il re di Svezia Gustavo III viene assassinato nel 1792 per mano di una congiura nobiliare guidata da Jacob Ankarström. La musica viene preparata fra ottobre 1857 e gennaio 1858, in parallelo alla complicazione dei rapporti con la censura napoletana che finirà per stravolgere il libretto e snervare Verdi tanto da portarlo a rifiutarsi di mettere in scena l’opera e di rompere il contratto con il teatro. La risposta del San Carlo non si farà attendere, con minacce di adire a vie legali e pesantissime conseguenze per il compositore (50.000 ducati di risarcimento, troppo per i gusti di Verdi). In questo clima le parti riacquistano la ragione e si addiviene a un compromesso con la rescissione del contratto e un’intesa formale per un allestimento di Simon Boccanegra nel novembre 1858, seguito dall’autore.
Libero di disporre del proprio dramma, qualche mese dopo Verdi prende contatti con il Teatro Apollo di Roma diretto da Vincenzo Jacovacci e si accorda per una messinscena a inizio 1859. Anche qui però svariati problemi di censura, rintuzzati dalla mediazione con le autorità papaline da parte dell’amico avvocato Antonio Vasselli (cognato di Donizetti), da cui conseguono alcuni rimaneggiamenti alla musica nell’autunno 1858. Il traguardo però sembra vicino. Dopo l’allestimento del Boccanegra Verdi parte da Napoli il 10 gennaio 1859 per Roma e l’opera va trionfalmente in scena il 17 febbraio con protagonisti il tenore Gaetano Fraschini, il soprano Julienne Dejean e il baritono Leone Giraldoni, con la messinscena curata dallo scrupoloso direttore di scena del Teatro Apollo, Giuseppe Cencetti, su cui Verdi riponeva grande fiducia.
Con Un ballo in maschera si conclude la parabola di quelli che Verdi aveva definito “sedici anni di galera”. E avviene con un’opera che raccoglie tutta quell’esperienza in una formula di riuscita prodigiosa nella quale l’equilibrio tra dramma e sorriso, il distacco ironico, il conflitto tormentoso fra dovere e piacere si risolvono in una continua inventiva musicale e in un tocco leggero eppure coinvolgente che riesce a riscattare il tono dominante, convenzionale e romanzesco, in una chiarezza e sicurezza di forme che Verdi non sarebbe più riuscito a realizzare con tanta fluidità. A questo concorrono anche altri ingredienti: un’attenta ma non opprimente simmetria nel grande (primo e terzo atto) e nel piccolo (terzetto del secondo atto), una nuova indagine sulle passioni, questa volta nella zona dell’amore colpevole e del rimorso, la presenza più incombente che mai della casualità nelle vicende umane, un profumo francesizzante spolverato senza patemi e ben personificato dal paggio, cioè l’unico personaggio, che attraversa intatto gli eventi. Anche la musica si adatta, con fare brillante, limpido, senza ombra di farraginose cabalette, pochi elementi corali, molte scene d’insieme, così da ottenere effetti di gran lunga superiori alla semplicità della sua struttura, fino quasi a far osservare con distacco le dinamiche che sottendono i meccanismi narrativi del teatro d’opera, il che può spiegare il motivo per cui Gabriele D’Annunzio lo ha definito “il più melodrammatico dei melodrammi”.
IL LIBRETTO
Giuseppe Martini
La storia del libretto di Un ballo in maschera è quella di uno dei più agitati casi di censura capitati a Verdi. Vasto e di profumo grandoperistico, il soggetto tratto dal dramma Gustave III di Eugène Scribe aggiungeva il tema amoroso a quello politico per motivare l’odio dei congiurati per Gustavo. Nel settembre 1857 Verdi incaricò l’avvocato e scrittore udinese Antonio Somma, conosciuto a Venezia all’epoca del debutto della Traviata, di ridurre in versi il dramma.
Per semplificare, quattro sono le fasi di stesura del libretto:
1) libretto con titolo di lavoro Gustavo III verseggiato sul dramma di Scribe (ottobre-novembre 1857), ambientato a Stoccolma nel 1792;
2) richiesta di modifiche da parte della censura e nuova versione (gennaio 1858) con spostamento dell’ambientazione a Stettino in Pomerania, cambio di nome da Gustavo a Ermanno e del titolo in Una vendetta in domino (il dominó è la maschera che copre tutto il volto);
3) Verdi arriva a Napoli e scopre che la censura - allarmata dal recente attentato a Napoleone III - è intervenuta sul testo, eliminando l’assassinio in scena, il sorteggio, le maschere, il ballo, trasformando la moglie in sorella, spostando l’ambientazione al medioevo fiorentino e cambiando il titolo in Adelia degli Adimari (gennaio 1858). Verdi, adirato, rompe i rapporti con il San Carlo rischiando serie conseguenze legali;
4) presi accordi con Roma, Somma e Verdi ripropongono la versione Gustavo III, e accettano le minime richieste della censura romana (spostamento dell’azione a Boston a fine Seicento, cambiamento di Gustavo nel governatore Riccardo di Warwick, di Ankastrom nel suo segretario Renato, dei congiurati Dehorn e Ribbing in Samuel e Tom, di Cristiano in Silvano, e modifiche a una sessantina di versi). Somma non ne è contento, ma fra marzo e ottobre 1858 prepara la versione definitiva di Un ballo in maschera, firmando sul frontespizio con un anagramma del proprio nome (Tommaso Anoni). Verdi tuttavia mantiene in partitura molte più parole del Gustavo III rispetto al libretto, che Ricordi uniformò alla partitura solo nel Novecento.
Il libretto utilizzato per l’allestimento del Festival Verdi 2021 è quello del Gustavo III proposto alla censura romana prima che questa sollecitasse gli interventi che portarono alla trasformazione in Un ballo in maschera, applicato però alla musica del Ballo, cioè con i ritocchi musicali già apportati da Verdi per la versione definitiva. A parte i primitivi nomi dei personaggi, la dignità di re ripetuta più volte, e i riferimenti alla Svezia (che sono solo due, nel coro iniziale e nell’aria di Ankastrom del primo atto), appaiono ancora i nomina sacra e i riferimenti alla religione, alla sessualità, alle armi, e al tradimento subìto da Ankastrom (“Tal marchio fitto mi volle in fronte”). L’aria del baritono del terzo atto appare inoltre con testo differente (“E sei tu”), ma diversità propongono anche i testi della sortita di Gustavo “La rivedrà nell’estasi”, della ballata “Volta la terrea”, del terzetto e del quartetto del secondo atto. Inoltre la parola d’ordine dei congiurati nel terzo atto è “Vendetta” e non “Morte”. Il finale terzo è più stringato e meno allusivo.
Nonostante si sia attirato riprovazioni per certi versi rocamboleschi (“sento l’orma dei passi spietati”, “raggio lunar del miele”), Somma si dimostrò poeta duttile e fantasioso, assecondando le osservazioni di Verdi e le sue richieste di passione, azione, psicologia e parola scenica, che tradusse in un libretto in cui comicità, dramma e orrore appaiono ben miscelati e hanno contribuito alla felice riuscita dell’equilibrio musicale e drammaturgico.
NOTE DI REGIA
Cosa resta per il re che ha tutto? Piaceri proibiti? Rischio? Rivoluzione? Oppure castrare l’establishment per conquistare l’amore del popolo? …del suo paggio?… della moglie del suo migliore amico? Lo stile di vita revisionista dello svedese Gustavo III gli ha procurato molti amici, e molti nemici, mentre lui stesso corteggiava il pericolo con tutto l’autodistruttivo fulgore di un artista la cui più grande creazione sarà la sua stessa morte.
Graham Vick
Quando ho tradotto queste note per Graham mai mi sarei aspettato quello che è successo. Le parole scritte per il suo Ballo hanno un suono oggi molto particolare. Queste dovrebbero essere delle note di regia, sono invece le note di un progetto che è conversazione, quella fra Graham e me: ne sono stato assistente a lungo, abbiamo condiviso un percorso molto lungo assieme, ho imparato da lui un mestiere, ma soprattutto ci siamo incontrati, ci intendevamo anche senza parlarci, abbiamo iniziato a confrontarci più di vent’anni fa e non abbiamo mai smesso. Oggi mi trovo qui a Parma a scrivere di uno spettacolo che era suo ed invece è diventato mio. Quello che vedrete è il risultato della nostra, per così dire, ultima collaborazione, ho raccolto il progetto dove lui lo ha lasciato e l’ho portato in fondo. È uno spettacolo di Vick? No. È uno spettacolo di Spirei? Nemmeno. Questo è un gioco del destino, uno scherzo o una follia, è la prova di due artisti che, come Re Gustavo, non hanno mai temuto il pericolo, il mettersi in prima linea per cambiare il mondo che ci sta intorno; uniti nella certezza che il teatro e soprattutto il teatro d’opera sia strumento di cambiamento individuale e sociale. È uno spettacolo che parla di limiti, di valicare i confini per spingersi oltre. «Con lacere vele e l’alma in tempesta, i solchi so frangere dell’onda funesta: l’Averno ed il cielo irati sfidar» dice Gustavo travestito nell’antro di Ulrica; si parla di mascheramenti di travestimenti, di come niente sia come appare, si parla di noi, delle nostre debolezze, delle nostre fragilità.
Jacopo Spirei
SI SCRIVE BALLO, SI LEGGE GUSTAVO
Conversazione conRoberto Abbadoa cura diAngelo Foletto
Si scrive e si ascolta Un ballo in maschera («La scena a Boston e ne’ dintorni. L’azione nella fine del secolo XVII»). Si legge Gustavo III («L’azione è a Stockolm e nei dintorni il 15. e 16. marzo 1792»). «Ma gli appassionati verdiani e chi ha fiducia nei progetti scientifici del Festival Verdi possono stare tranquilli» assicura Roberto Abbado: «ciò che ascolteranno è frutto un’operazione filologicamente sorvegliata, di “inserimento” del testo integrale del primo libretto presentato dal compositore a Roma sulla partitura di Ballo in maschera, nell’edizione critica a cura di Ilaria Narici».
Altrettanto integrale e intatta?
Al 100% per la parte orchestrale. Al 99% a voler essere puntigliosi per quella vocale. In alcune situazioni testuali, ci sono minimi aggiustamenti alla linea del canto, semplici accomodature sillabico-accentuative. Nella parte del coro interno del finale, ad esempio, e in passaggi praticamente inavvertibili all’ascolto. Solo una frase, forse, verrà colta: al posto dell’usuale «S’appella Ulrica, dell’immondo sangue dei negri», in Gustavo III si canta «S’appella Ulrica, la sibilla».
Ma non è la prima volta che viene proposta l’ambientazione svedese…
Beh, certo: tra gli altri precedenti l’edizione diretta da Claudio Abbado. Ma erano parziali. Cominciando dai riferimenti geografici («Inghilterra» che diventava «patria»; il «patria» della prima grande perorazione di Renato era «Svezia» per Ankastron) riprendevano nomi e titoli onorifici dei personaggi, alcune parole, e poche altre locuzioni. Senza “inserire” tutto il testo così come era stato pensato.
L’opera così come l’avevano veramente concepita gli autori, insomma.
Si, semplificando, è così. Meglio: l’opera che Verdi avrebbero voluto che gli spettatori romani ascoltassero, apprezzandone l’originalità già alla lettura del testo elaborato col Somma.
Ma perché è così fruttuoso tornare al testo “svedese”?
La figura di Gustavo III ha caratteristiche uniche. È importante come personaggio storico: politicamente e culturalmente. Despota illuminato dell’Europa di fine diciottesimo, Gustavo fu un regnante di grandi visioni aperte e moderne ma anche un tiranno che non si fece scrupoli a usare la violenza. Eppure, aveva quasi abrogato la pena di morte e messo al bando la tortura.
Figura personale contradditoria e tormentata. Come Riccardo, del resto…
Sì, ma dobbiamo considerare l’altro elemento importante ‘svedese’: Gustavo fu un sovrano – non un governatore, benché Conte, cioè al servizio di altri – dai gusti estremamente raffinati. Che per gusto e piacere personale creò una corte in cui sono praticate e favorite le espressioni artistiche più eleganti. Un ambiente di grande levatura intellettuale, diremo oggi, in cui il re si dichiarava appassionato di musica e di letteratura.
Di qui un facile “suggerimento musicale”, poiché Verdi cura l’evocazione di quell’ambiente di corte in cui si svolge il dramma non come semplice colore.
La grandezza della tragedia si staglia sul fondale d’una corte in cui dominano «scherzo» e «follia» eleganti e aristocratici. Ma di Gustavo III, sono unici anche i tratti personali. Il matrimonio combinato, considerata l’omosessualità più o meno conclamata, quindi l’intelligenza nel difendere la sua autorità pubblica al di là di tormenti e ambiguità sessuali. E assume più forza, elemento dirompente e per certi versi inaspettato, la relazione adultera eterosessuale.
Proviamo a definire in poche parole il carattere speciale di Ballo in maschera.
L’opera è un miracolo di equilibrio tra commedia e tragedia – non solo nel quadro del ballo che la riassume. Sono d’accordo con chi rileva i riferimenti col teatro mozartiano in particolare con Don Giovanni, capolavoro in cui il confine tra i due generi è volutamente ambiguo. Ma ancor più evidente, come peraltro quasi sempre in Verdi, è il riferimento al modello drammatico di Shakespeare: brillantezza e cupezza sono sempre mescolate.
Situazioni episodicamente presenti in altri titoli d’autore …
Ma qui sono dominanti. La dinamica affettiva e caratteriale che procede per illuminazioni e contrasti continui e aspri ispira la musica quasi in ogni scena.
Anche in Rigoletto compaiono in parte situazioni simili, non trova?
La compresenza di tinte leggere, da intrattenimento cortigiano, e di tragedia nella prima grande scena può essere considerata una sorta di incunabolo del mondo di Ballo. Ma il modo di giocare ed esercitare il potere del duca di Mantova e di Gustavo III rispecchiano i secoli di distanza delle rispettive opere. Gustavo rappresenta l’evoluzione in chiave colta, elitaria e europea del Duca.
Studiando i due libretti quale ragionamento principale l’ha convinta a abbracciare la proposta Ballo/Gustavo III?
Il testo definitivo di Un ballo in maschera ammorbidisce i contrasti, tra cui le possibili implicazioni omosessuali e altre situazioni morbose. Ma poiché sono tra le motivazioni drammatiche più originali di questo bellissimo testo, la ripresa del primo libretto contribuirà a illuminarli.
Si immagina la reazione del pubblico che sentirà cantare da Gustano «La rivedrò ma splendida d’angelico pallore» invece di «La rivedrò nell’estasi raggiante di pallore» oppure alcune parole del finale diverse?
Mi auguro che le parole diverse inducano curiosità e interesse per la lettura del libretto di Gustavo III. Al di là dei singoli vocaboli, è un testo più crudo e duro, violento a tratti; perfino la componente brillante è meno spensierata, più acida. L’altro elemento che alla lettura deve essere colta dagli spettatori – ripeto non è facile coglierlo al primo ascolto – è la doppiezza di alcune frasi e il fatalismo che regge la vicenda: le ultime parole di Gustavo che ‘riprendono’ la profezia di Ulrica o il riferimento al «ciel che non volle» sono espressioni rivelatrici; perdute nella rifinitura successiva.
Ci sono state situazioni in cui la ripresa del testo originale ha trovato resistenza o creato sforzi tecnici ai cantanti?
No, il testo è proprio quello che Verdi e Somma volevano come definitivo. Non è un caso che Verdi tenesse così tanto alla sua nuova opera, e in vista della prima produzione prevista a Napoli, si prese il compito di presentare personalmente il testo alla Censura borbonica. Con tutta la deferenza per le successive scelte degli autori, il testo di Ballo rimane un aggiustamento, quasi una “normalizzazione”.
Se dovesse indicare una sola parola capace di definire l’opera…?
Sarebbe inevitabile ricorrere a immagini che appartengono al mondo visivo del chiaroscuro. Ma dal punto di vista di ciò che realizza la drammaturgia non c’è dubbio: Ballo in maschera/Gustavo III è un esempio di “teatro totale” d’autore.
E lei lo dirige per la prima volta.
Lo aspettavo e studiavo da anni. Sento la responsabilità nell’affrontare una partitura così raffinata nella scrittura, nella concezione dei singoli personaggi, nel virtuosismo teatrale e musicale che tratta situazioni drammatiche così diverse in perfetta armonia.
PER VEDERE DI NASCOSTO L’EFFETTO CHE FA
Giuseppe Martini
Cosa si può aggiungere su Un ballo in maschera, quest’opera così tornita in cui confluiscono come da un imbuto tutti gli argomenti cari a Verdi disciolti in quindici anni di teatro musicale (il destino cinico, la natura indifferente, il mistero dell’esistenza, l’impossibilità di coniugare felicità privata e concordia pubblica, la precarietà degli affetti, la ritorsione della vendetta e l’errore di chi pretende di correggere tutto questo)? Anche le tribolazioni vissute con la censura fanno parte di quei meccanismi: se Verdi non avesse rotto il contratto con Napoli per andare in scena a Roma, al posto di Un ballo in maschera cosa avremmo avuto? Una vendetta in domino, la versione rimaneggiata ambientata a Stettino? Oppure niente, un’opera messa in soffitta? Ma no, Verdi non avrebbe buttato via il lavoro fatto e, dopo l’Unità, avrebbe riproposto da qualche parte Gustavo III.
È infatti proprio su Gustavo III che si innesta il Ballo. Arrivato a Roma, Verdi azzera tutte le problematiche incontrate con la censura napoletana e torna alla prima fase di elaborazione del libretto, presentando ai censori romani questo, e non La vendetta in domino (versione già rielaborata per il gusto degli uffici di polizia napoletani). Non è il caso di deprecare le richieste della polizia romana, che portarono alla trasformazione del libretto del Gustavo III in quello bostoniano definitivo: è il gioco delle parti, era pur sempre lo Stato della Chiesa, e alla fine l’ambiente papalino si dimostrò molto meno schizzinoso di quello borbonico.
Sia chiaro, non esiste una partitura sopravvissuta di Gustavo III e la sua ricostruzione è un lavoro a tavolino di due musicologi, Philip Gossett e Ilaria Narici, sulla base di abbozzi e cancellature dell’autografo del Ballo nella forma cosiddetta “scheletro”, cioè quella elaborata solitamente dai compositori con linea del basso, parti vocali e appunti di strumentazione, prima dell’orchestrazione finale. Ma la cosa qui poco ci tocca. In questo allestimento non viene ripresa infatti la partitura di Gustavo III, di cui almeno un quarto della musica fu cambiato da Verdi per trasformarla nel Ballo, ma si compie un meno traumatico esperimento: sovrapporre cioè il libretto di Gustavo III presentato ai censori romani sulla musica definitiva di Un ballo in maschera, quello che Verdi avrebbe cioè messo in scena se non fossero stati richiesti ulteriori interventi. Lo si fa per provare a sentire il profumo dell’originale ambientazione svedese, che a Verdi piaceva così tanto perché ci si sente «un po’ di mondo e l’odore della corte di Luigi XIV»: una realtà cioè dove il sovrano è tutto, dove giocare e divertirsi è la regola principale di vita (qui si scherza con la magia nera perché l’idea è “feconda di piacer”, e lo sentenzia un paggio), ci si può permettere di sprezzare le minacce di morte e un capriccio d’amore ai danni del proprio migliore amico diventa più urgente del buon governo.
Qui perciò non si tratta di correggere Verdi, di stanare le sue vere intenzioni, di pretendere di saperne più di lui. Se lo si fa è per mera curiosità, per verificare come suona quel mondo svedese delle prime intenzioni verdiane sulla musica a tutti cara del Ballo, e vedere l’effetto che fa. E l’effetto che fa è come quegli strani sogni in cui si vedono persone che hanno la faccia diversa da quella che hai sempre conosciuto. Non ci si abitua subito a sentire Oscar che invece di cantare “Volta la terrea / fronte alle stelle” canta “Pallida pallida / volta alle stelle”, o il tenore che anziché “La rivedrà nell’estasi / avvinta di pallore” ci ammannisce un “La rivedrà ma splendida / d’angelico pallore”, anzi sulle prime il fenomeno sa di fiducia tradita, ma questo sarebbe il meno.
No, qui non c’è ancora l’invenzione verbale rocambolesca che Somma ha dovuto applicare alle richieste della censura romana. Riemerge anzi un suo verseggiare più largo di significati, più schietto e più metallico, in uno sgattaiolare di pugnali nell’ombra e un timore corrente di sangue, e soprattutto in una continua commistione fra sacro e profano che non poteva essere tollerata dalla censura papalina, è comprensibile.
Anche se poi, guarda qui, guarda là, a quei pii censori è sfuggito il clamoroso “s’indìa”, una delle acrobazie verbali di Somma per dire quanto era divino far l’amore con Amelia. Se ne fossero accorti, matita blu a doppia sottolineatura. Ma è chiaro: erano tutti presi dai due versi successivi in cui si racconta che Amelia, questa campionessa delle lenzuola sublimate, “simile ad un candido / cherubino brillava d’amor!”. Eh no, il cherubino a letto proprio non poteva andare. Nel sostituire per il Ballo queste ardite figure retoriche, Somma ha perso un po’ di estro, e forse anche un po’ di pazienza. Non potendo essere un cherubino, Amelia sarà destinata a brillare sul seno del marito, una scelta lessicalmente corretta ma visivamente ambigua, giacché si allude a corpi discinti di sesso diverso. In modo analogo, l’“angelico pallore” della sortita di Gustavo diventerà “raggiante di pallor” in quella di Riccardo, con la ben nota osservazione a traino che se si è pallidi non si può essere granché raggianti – mentre opportunamente un angelo può ben esser pallido.
In altri casi le riprovazioni della censura si capiscono solo se si fa mente locale al contesto. Quando Ulrica canta “Le chiavi del futuro / nella sinistra egli ha” riferendosi a Satana, lì per lì non sembra niente di che: ma in effetti non solo a un romano del 1859 il pensiero sarebbe corso alle chiavi di San Pietro e al rischio di un increscioso parallelo col pontefice.
A parte altre scelte nel libretto di Gustavo III, i cui emendamenti nel Ballo si scoprono meno motivati; a parte quelli in cui Somma ha dovuto inventarsi di tutto per sostituire con l’accentazione giusta le molte ricorrenze delle parole “re” e “conte” per dire Gustavo o Ankastrom (“l’innamorato Conte riposa” è diventato un singolare “l’innamorato campion si posa”); a parte questo, si badi come nella versione svedese la profezia di Ulrica non prevedeva che l’assassino del protagonista sarebbe stato un suo amico, e il fatto d’essere amico non appare perciò in Ankastrom come un ulteriore inquietante titolo di sospetto, ma come una garanzia della fallacia della profezia. Nel ritocco per il Ballo, Verdi e Somma sentirono invece di dover rafforzare la questione. Il punto più vistoso resta l’aria del baritono del terzo atto, per la quale tra l’altro Verdi aveva scritto all’inizio una musica diversa, meno rabbiosa, più cupa, più triste (che qui la si senta con quella adattata ai versi rifatti, è altra questione). Anche in quest’aria, espressioni come “santuario dell’anima mia”, il già citato “cherubin” e persino “vassallo tuo” subirono brusche sostituzioni, ma almeno non lamentiamo la perdita di quel “in tal guisa rimuneri”, diventato nel Ballo “compensi in tal guisa”. Lavoraccio, insomma, altro che pochi ritocchi.
Morale: Verdi potrebbe dire che non è il caso di andare a rimestare le mani nel lavoro del compositore. Ma qui ci sta quel che disse Philip Gossett a difesa del proprio operato, tagliando la testa al toro: «Il teatro è un luogo del gioco, inteso nel suo senso più elevato. E allora, lasciateci giocare».