L'enigmatica seduzione
di Francesco Bertini
Caposaldo del repertorio veneziano, titolo fra i più significativi ad aver debuttato nei teatri lagunari, La traviata continua a suscitare interrogativi, riletture e accese emozioni, anche grazie allo struggente, intelligentissimo allestimento di Robert Carsen. Nel cast si segnala ancora una volta la giovanissima Francesca Dotto, già Violetta di notevoli qualità e in continua maturazione. Con lei il promettente tenore Matteo Lippi e la conferma del trentenne Simone Piazzola come uno dei più autorevoli baritoni verdiani in circolazione.
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VENEZIA 29 marzo 2015 - Tra le opere create appositamente per il Teatro veneziano vi sono alcuni titoli che hanno influenzato generazioni e continuano a farlo. Entrata stabilmente in cartellone, con più riprese durante la medesima stagione, La traviata è tesa a valorizzare il patrimonio più genuinamente “nostrano” che, a oltre un secolo e mezzo di distanza dalla prima esecuzione, continua a suscitare interrogativi, riletture e riaccese emozioni.
L’ormai mitica produzione, tanto discussa e criticata quanto efficace e sbalorditiva, che segnò, nel 2004, la riapertura del teatro La Fenice, ricostruito in seguito al rovinoso incendio del 1996, si presta a rinnovare le riflessioni destate dalla vicenda tratta dal dramma La dame aux camélias di Alexandre Dumas. Robert Carsen, curatore della regia, e Patrick Kinmonth, chiamato a dar forma alle idee attraverso scene e costumi, si uniscono nell’attuazione di uno spettacolo struggente. Le caratterizzazioni psicologiche dei vari individui emergono vivide e stagliate nell’insormontabile solitudine umana, cifra prima della società dei consumi e dei facili riconoscimenti. L’infantile carattere del giovane Alfredo, innamorato ma privo di razionalità, è sottolineato dal voyeuristico hobby delle foto concentrate sulla figura dell’amata, immortalata attraverso l’obiettivo che diventa un diaframma tra il mondo trasognante dei sentimenti e la realtà della sofferenza. L’aspetto aristocratico di Germont padre si staglia nell’effimero ambiente materiale senza riuscire, nella sua ipocrisia, nell’intento di dar battaglia alla dissolutezza, quasi irreparabile, degli usi e costumi giovanili. Nel mezzo sta Violetta Valéry la quale ha osato infrangere i tabù della società e per questo deve pagare. Carsen affonda il dito nella malattia immaginando una protagonista dipendente dai farmaci, o meglio dalla droga, circondata da ricchezze senza fine: l’intera prima parte del secondo atto si svolge all’aperto, in un giardino autunnale, dove l’unico memorabile espediente utilizzato, una serie di banconote che volteggiano fino a toccare il suolo, rappresenta con incredibile chiarezza la caducità dell’esistenza e l’effimero benessere proveniente del denaro. Il coup de théâtre arriva nell’ultimo atto: si impone la desolazione sterile della scena vuota che rappresenta la casa in stato d’abbandono in netto contrasto con l’opulenza iniziale ormai assente, come gli amici e la salute.
Udita circa un anno e mezzo fa in Lucrezia Borgia,allestita al Teatro Verdi di Padova, si ritrova la giovanissima Francesca Dotto impegnata nel ruolo di Violetta Valery. Le doti, già evidenziate all’epoca, emergono anche in quest’occasione. Appare evidente la profonda maturazione avvenuta nell’interprete: la presenza scenica è assai più naturale, capace di risaltare tanto l’effervescenza della gioventù, quanto le sofferenze causate dal morbo, mentre la voce si impone per le screziature suadenti e la duttilità che consentono all’artista il giusto approccio con la scrittura, così variegata nell’arco dei tre atti.
Al suo fianco non sfigura l’Alfredo di Matteo Lippi. Il tenore genovese ha dalla sua il timbro luminoso e l’omogeneità apprezzabili durante la recita. Si nota, al contrario, qualche debolezza scenica, risolvibile con il tempo.
Simone Piazzola conferma la propria levatura nei panni di Giorgio Germont. La sua prestazione palesa fraseggio e presenza invidiabili. La voce ha colore baritonale autentico, ideale per i ruoli verdiani. Il lungo duetto del secondo atto e la successiva aria vengono affrontati con aplomb e valida intesa, tanto con la buca quanto con i colleghi.
Completano il cast Elisabetta Martorana, Flora Bervoix, Sabrina Vianello, Annina, Iorio Zennaro, Gastone, Armando Gabba, barone Douphol, Mattia Denti, dottor Grenvil, Matteo Ferrara, marchese d’Obigny.
La lunga esperienza di Stefano Rabaglia si estrinseca in una concertazione solida, benché a tratti avara di sfumature. La sua lettura asseconda i cantanti e offre un elastico tappeto sonoro capace di piegarsi alle esigenze e sceniche e vocali. Positiva la prova dell’Orchestra del Teatro La Fenice la quale conosce a menadito la partitura, costantemente eseguita. Anche il Coro, istruito da Claudio Marino Moretti, fa valere la propria preparazione.
Teatro gremito e festante durante lo spettacolo e al termine.