Il sogno infranto
di Roberta Pedrotti
Torna al Comunale di Bologna, dopo l'unica altra produzione nel 1974, la Jenůfa di Janáček, con la direzione musicale caliginosa di Juraj Valčuha e la regia ricercata di Alvis Hermanis, fra realismo e simbolismo. Fra i cantanti si impone la Kostelnička di Angeles Blancas Gulin.
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BOLOGNA, 17 aprile 2015 - Tutti amano Jenůfa: Števa, Laca, la Kostelnička.
Tutti amano Jenůfa nel modo sbagliato: Števa vede solo la sua bellezza e non è in grado di assumersi le proprie responsabilità; Laca arriva a sfregiarla; la Kostelnička uccide il suo bambino con il miraggio di sottrarla allo scandalo e permetterle un futuro migliore. Illusa dall'amore per l'uomo – ancora – sbagliato, Jenůfa tutti comprende, tutti perdona, accetta ogni cosa.
Sembrerebbe semplice parlare di Jenůfa in termini di realismo slavo, di dramma rurale spruzzato di aromi musicali folkloristici, ma l'amarezza di questo mondo sbagliato, senza accensioni melodrammatiche nonostante un soggetto che più melodrammatico non si potrebbe nei nodi centrali del tradimento, della competizione amorosa e dell'infanticidio, suggerisce una visione più profonda, più complessa, lascia perfino nella conciliazione finale un senso di dolorosa inquietudine, di profonda, ineluttabile infelicità insita nella natura stessa dell'uomo, anche nei suoi sentimenti migliori.
Il regista Alvis Hermanis sembra cogliere il nucleo dell'opera di Janáček proprio nel contrasto fra l'interno e l'esterno, fra la dura realtà e il mondo dei desideri e delle apparenze, fra la tragedia e la volontà di conciliazione dell'Autore. La scena si apre in un ambiente luminoso, dominato da immagini liberty, in una danza continua, fra ridondanti abiti tradizionali che fanno apparire i personaggi come tanti pupi, marionette, simili a quelle bambole folkloristiche che forse ancora si trovano nei negozi di souvenir. Può essere l'idealizzazione borghese del popolo e della campagna, ma anche il mondo in cui l'ingenua Jenůfa è convinta di vivere, certa dell'amore del suo Števa e dei suoi diritti, lieta d'insegnare a leggere a pastori e cameriere. Un mondo destinato a lacerarsi come la pelle della fanciulla sotto il coltello di Laca, svelando il dramma che covava sotto l'idillio.
Il secondo atto, allora, è contemporaneo, duro, crudo, miserabile. Non è più la cartolina di un Est europeo colorato e floreale, ma l'immagine concreta della povertà, del freddo, dello squallore in una campagna desolata e avvilita. Niente più danza perpetua a incarnare il moto della musica e dell'anima di Jenůfa, ma una stanzetta angusta, arredata alla meno peggio, con le finestre appannate dalla brina. La recitazione si fa naturale, il dramma autentico e spietato, terribile nella sua quotidianità: dopo aver gettato il bimbo nel fiume gelato la Kostelnička si lava le mani compulsivamente, come Lady Macbeth, e le riscalda poi sul fornello, unica fonte di tempore; la fragile Jenůfa, sconvolta e priva di forze alla notizia della morte del figlio, resta inebetita a ripiegare meccanicamente tutti i suoi abitini. Quando le nozze con Laca sembrano poter realizzare il progetto di felicità della Kostelnicka, poter riportare indietro il tempo e restituire l'idillio a Jenůfa, nel terzo atto, torniamo nel mondo di bambole e folklore. Un mondo che è anche la maschera di una società pirandelliana dove si nega tutta la realtà e quanto avvenuto nelle mura domestiche, dove le nuove coppie Števa/Karolka e Jenůfa/Laca simulano amicizia, dove il passato, il privato, lo scandalo è come se non fosse mai esistito. Ma questo incombe, esplode di nuovo nella scoperta del cadaverino.
Tuttavia l'opera non si chiude in tragedia, ma con la professione di serenità di Jenůfa, la sua definitiva conciliazione con Laca, il loro sguardo verso il futuro. Fasullo, posticcio. Fuggire alla realtà è inutile e Hermanis lo dichiara non, come ci si potrebbe aspettare, con un ritorno al mondo squallido del secondo atto, ma in un'apoteosi floreale che più falsa non si potrebbe. I due giovani credono ancora nel loro sogno, ma lo iato rispetto all'infelicità, alla violenza e alla morte che permeano la vita è fin troppo evidente, incolmabile.
Sul podio Juraj Valčuha asseconda perfettamente il simbolismo crudele della messa in scena, con una direzione caliginosa, priva di speranza, amara anche in un finale che, seppur grandioso nel suo crescendo, sa di condanna più che di rinascita. Finissimo nel tratteggiare l'evoluzione di alcuni piccoli temi (la cellula melodica sulla parola Jenůfa pronunciata dalla Kostelnička nel secondo atto e che si dipana accompagnando poi ossessivamente tutto il suo accorato discorso alla figliastra), non è forse tagliente come ci si sarebbe potuti aspettare, non sembra interessato a evidenziare troppo il colore locale rispetto alla tensione del dramma, ma l'orchestra suono benissimo, la tinta è sempre quella giusta per lo spettacolo, incredula, implacabile, fosca.
Nel cast s'impone Angeles Blancas Gulin, che conferma la consolidata tradizione di affidare il ruolo della Kostelnička a temperamenti più che a sopraffine vocalità. Non pare usurata, nonostante la frequentazione di un repertorio oneroso (i geni materni devono averle fornito un'ugola d'acciaio), ma, certo, la tecnica è quantomeno eterodossa, i suoni non sempre piacevoli. Tuttavia l'energia, il pathos, l'adesione al ruolo e, sì, anche uno smalto vocale naturale mai in evidenza come in quest'occasione, le hanno permesso di siglare una prova sorprendente.
Più in ombra Andrea Dankova, che ha il physique du rôle per Jenůfa, ma cui manca una più angelica dolcezza nel canto sul fiato, una schietta, fanciullesca purezza d'emissione che le permetta di gestire anche i momenti più drammatici. Corretta, certo, ma non entusiasmante. I tenori Brenden Gunnell (Laca) e Ales Briscein (Števa) sostanzialmente si equivalgono: voci portate più al declamato che al legato come siamo oggi abituati ad ascoltare in questo repertorio, teatralmente perfetti nei rispettivi ruoli sia nell'idillio del teatrino paesano, sia nel dramma delle squallide campagna.
Nutrito il cast dei comprimari, per lo più italiani e ai quali va, dunque, anche il merito di un'accurata adesione alla poetica dello spettacolo e allo spirito slavo della partitura: Gabriella Sborgi è la nonna, Maurizio Leoni il mugnaio, Luca Gallo e Monica Minarelli il sindaco e sua moglie, Leigh-Ann Allen Karolka, Arianna Rinaldi Pastuchyna, Roberta Pozzer Barena, Sandra Pastrana il pastorello Jano e Grazia Paolella la zia Tetka. Bene anche il coro nei suoi interventi.
Il teatro non è esaurito alla prima, ma si spera che i bolognesi non si facciano sfuggire l'occasione di assistere a una replica. Il successo del debutto dovrebbe essere buon viatico per un passaparola positivo.
foto Rocco Casaluci