L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I dolori della giovane Charlotte

 di Francesco Bertini

 

Produzione piacevolmente equilibrata del capolavoro di Massenet a Trieste, nel quale, però, a fronte di un protagonista maschile insufficiente, emerge nettamente l'ottima Charlotte di Olesya Petrova, con l'efficace contraltare della Sophie di Elena Galitkaya.

TRIESTE, 29 novembre 2015 - La stagione del Teatro Verdi di Trieste, recentemente inaugurata dalla produzione di Don Giovanni [leggi la recensione], prosegue ora con un nuovo allestimento, coprodotto con la Fondazione Teatro Lirico di Cagliari, di Werther, caposaldo emblematico del linguaggio di Jules Massenet. Il dramma lirico in quattro parti su libretto di Paul Milliet, al quale si affiancarono Édouard Blau e l’editore George Hartmann per apportare una serie di limature nel tempo, fu ispirato a Massenet dalla lettura della versione francese di I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe. Le difficoltà incontrate per la rappresentazione in patria indussero l’autore a far debuttare l’opera, tradotta in tedesco, alla Hofoper di Vienna il 16 febbraio 1892. I tempi mutati e il grande successo europeo arriso al lavoro riportarono trionfalmente la partitura in Francia, dove ottenne trionfali accoglienze il 16 gennaio 1893 all’Opéra-Comique di Parigi. Il profondo attaccamento del compositore per questa sua fatica è certamente rintracciabile nell’inusitata affinità con una tematica, il cosiddetto spleen, divenuta celeberrima all’epoca e grandemente celebrata dalla vicenda wertheriana. Le emozioni suscitate dal romanzo attrassero Massenet fin da subito (nella sua autobiografia egli parla di “lagrime agli occhi” per le scene avvolgenti) per l’estrema compiutezza psicologica, resa in scena con accentuati contrasti che acutizzano la vena lirica, innata nell’autore. Le angosce trovano riscontro tanto nella conduzione vocale quanto nella gestione orchestrale: mentre la prima si attiene al libretto, con l’intento di sprigionare la carica romantica e decadente, la seconda funge da appendice ove la parola, da sola, non è in grado di evocare compiutamente il profondo turbamento. In questo senso l’esposizione è perfettamente strutturata per condurre l’ascoltatore, pervaso da un senso di smarrimento, dal gaio principio al baratro finale: peraltro la ciclicità del racconto, che esordisce con un canto di natale intonato dai fanciulli e viene siglato dal medesimo motivo, stride, nella precisione e nel rigore dell’esistenza altrui, con l’annichilimento dell’eroe, emarginato e incompreso dal mondo.

È evidente che il protagonista dev’essere un fuoriclasse. A lui sono riservate alcune delle pagine più intense e da lui si esige una gamma espressiva raffinatissima. Caratteristiche quasi completamente assenti dal belga Michael Spadaccini, Werther a Trieste. La presenza scenica appare estranea ai tormenti e alle passioni che scuotono il giovane. Pochi sono i momenti in cui si nota una minima iniziativa, tesa a far vivere il personaggio, per il resto il tenore risulta distaccato e artefatto. L’emissione fibrosa, stonata, a tratti ingolata, e decisamente stentorea poco si adatta allo struggimento interiore del protagonista che esigerebbe un canto ricco di tinte e di pathos. Colpisce negativamente anche la dizione, resa ancor più problematica dal tentativo di mascherare le difficoltà riscontrate. Qualche spiraglio di luce, qua e là, non basta a riscattare una prova sotto la soglia della sufficienza. Un vero peccato nel contesto positivamente omogeneo della produzione.

Se infatti Ilya Silchukov evidenzia qualche difficoltà nei panni di Albert ma porta in fondo la recita con intelligenza e gusto, sono le voci muliebri a riservare le sorprese migliori.

La russa Olesya Petrova, al debutto in Italia, tratteggia una Charlotte compiuta. Le inquietudini che turbano la donna sono perfettamente riscontrabili nella prestazione attoriale e canora. La padronanza del palcoscenico le consente di esibirsi compiutamente, con una caratterizzazione che non tralascia l’aspetto fisico della recitazione. Per quanto attiene la resa vocale si apprezzano tanto le sfumature, il fraseggio e la musicalità, quanto l’impegno volto a cogliere lo struggimento umano e il terribile senso di colpa al cospetto del suicidio e del rispetto prono delle convenzioni sociali.

Anche Sophie nella sua scanzonata gioia, elemento indispensabile per dar corpo e rotondità alla tragedia, trova in Elena Galitkaya un’interprete godibile e perfettamente in sintonia con il ruolo.

Puntuale, ma a tratti poco curato, Ugo Rabecnelle vesti di Le Bailli. La gaudente coppia di amici del podestà, Schmidt e Johann, è affidata rispettivamente ai divertenti, ancorché non sempre ben a fuoco negli interventi, Alessandro D’Acrissa e Dario Giorgelè. A coronare il cast vanno rammentati Giuliano Pelizon, Brühlmann, e Silvia Verzier, Käthchen.

Non è scontato né consueto trovare piccoli nuclei di voci bianche di una certa caratura: ai “Piccoli Cantori della Città di Trieste” e alla loro guida Cristina Semeraro è doveroso riconoscere l’ottimo lavoro svolto nel capoluogo giuliano.

Fatte salve alcune sbavature, l’Orchestra della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi è compatta e affiatata. Il merito va ascritto a Christopher Franklin. Il direttore cura attentamente la partitura, creando un tappeto sonoro del tutto in sintonia con una lettura vibrante e personale. Le sue scelte agogiche e dinamiche prediligono una certa veemenza che, tuttavia, non lascia nulla al caso e, soprattutto, non sacrifica i colori e le nuance richiesti dalla scrittura massenetiana. Le idee elargite dal concertatore completano, attraverso l’orchestra, la definizione dei caratteri attraverso il commento oculato delle varie situazioni: dagli impasti timbrici soffici ed edulcorati delle fugaci scene “d’amore” si passa alle tempestose e adrenaliniche turbolenze emotive del rifiuto e del suicidio.

Il lavoro del regista Giulio Ciabatti è interessato alla chiarezza nell’esposizione che coglie, con pennellate vivide, gli aspetti predominanti della vicenda. La concezione tradizionale dell’allestimento, oltre a evidenziare il contesto sociale nel quale l’azione ha luogo, sottolinea lo spietato attrito tra l’ipocrisia borghese e la forza dei sentimenti. Le scene di Aurelio Barbato, ben in sintonia con il disegno luci di Claudio Schmid, sono essenziali ma al contempo curate e sintoniche allo svolgersi della narrazione. Discreti i costumi di Lorena Marin.

Stupiscono la scarsa affluenza di pubblico e la quasi totale assenza di reazioni negli astanti. Scorrendo la cronologia delle rappresentazioni passate, quest’opera risulta in cartellone a cadenza regolare: che anche Werther sia considerato titolo “difficile” o troppo “impegnativo”?

foto Fabio Parenzan


 

 

 
 
 

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