Luce e libertà d’espressione
di Valentina Anzani
Qualche matto fuoriluogo ha dato scandalo prima del concerto di Juraj Valčuha al Teatro Manzoni lo scorso venerdì: era una performance dell’artista basco Mattin.
BOLOGNA, 30 gennaio 2015 - L’insolita penombra che avvolgeva la sala avrebbe dovuto allertare i convenuti al Teatro Manzoni la sera dello scorso 30 gennaio. Il concerto dell’Orchestra del Teatro Comunale ospitava l’atteso direttore slovacco Juraj Valčuha e doveva iniziare con un brano di Luigi Nono, ma, quindici minuti prima che l’orchestra occupasse i propri posti, dal palco un faro ha abbagliato la platea, mentre un uomo in un angolo iniziava a parlare a voce insolitamente alta. Nel brulicare della platea – ancora in piedi per metà – , un “È matto!” si è sentito quasi più forte del racconto che l’uomo intendeva fare. L’ha interrotto un ragazzo che in abiti sgargianti è saltato in piedi sui sedili delle prime file, cantando stonato un coro da stadio. A quel punto è stato chiaro che qualcosa stava accadendo: altri si sono alzati a parlare, tra momenti di denso silenzio in cui aleggiava lo sconcerto del pubblico e momenti di concitazione rumorosa. La luce violenta, dura, era un’aggressione per una platea in balia di quella che poteva sembrare un’occupazione di sovversivi; dal palco, il faro illuminava la tensione, il disagio, il vago senso di pericolo di chi non aveva capito e i sorrisetti di chi invece sì, i commenti insulsi di coloro che si atteggiavano a finti intellettuali, il “basta!” di una bionda spazientita, i “fuori dal teatro!” urlati a ripetizione e i fischi di disapprovazione.
Presentando il concerto, Nicola Sani ha svelato il mistero, dandogli il nome di Mattin, artista basco che sviluppa il proprio lavoro ragionando sul legame tra fruizione musicale nella società e la concezione di arte. L’artista ha creato una performance che ha rivelato sotto una nuova luce i rapporti tra pubblico “passivo” e artista “attivo”: ha proposto una provocazione (non dichiarata arte in maniera preventiva e dunque non inscritta nella “cornice” che l’avrebbe protetta e legittimata) che ha raggiunto il proprio scopo artistico nel momento in cui ha suscitato le reazioni del pubblico.
L’avvenimento ha entusiasmato alcuni e infastidito la maggior parte, ma certo ha predisposto menti e sensi all’insolito ascolto del brano di apertura del concerto, A Carlo Scarpa, architetto, ai suoi infiniti possibili, eseguito in omaggio a Luigi Nono nel settantesimo anniversario della Resistenza e della guerra di Liberazione, nell'ambito delle iniziative del progetto Resistenza Illuminata. È un brano costruito sulle caleidoscopiche risonanze contenute nella breve distanza tra Do e Mi bemolle, che Nono definisce come microintervalli. Queste minime oscillazioni d’altezze creano sonorità difficili e dense, in una composizione concepita ritmicamente e in cui colpisce l’uso degli strumenti ad arco, che si vuole producano suoni sordi e lignei. Oltre alla complessità di gestire un’orchestra che andava tenuta costantemente in pianissimo, compito non facile era anche quello di lasciar vivere il silenzio, che Valčuha ha saputo eseguire alla perfezione: nella composizione, infatti, gli interstizi senza suono sono tanto importanti quanto i sonori lievi amalgami ricchi di soffi e vibrazioni che li precedono e li seguono.
Secondo brano in programma era la Sinfonia n. 3 in re maggiore di Franz Schubert, che, pur apparendo quasi semplice e immediata, certo più familiare, dopo le inusitate sonorità di Nono, non si è ridotta a interludio. Il direttore dalla bacchetta leggera ma pungente, infatti, ha intuito l’intenzione dell’autore, non permettendo mai cali di tensione e lasciando sospesi i finali di movimento per guidare la scalata al raggiungimento del Presto vivace fugato, in cui ogni sezione dell’orchestra era sostenuta nella rincorsa reciproca.
Ha fatto seguito la grandiosa potenza della Sinfonia n. 8 in do minore di Šostakovič, che Valčuha ha fatto scorrere con piglio gagliardo. Dall’esordio in Adagio, eseguito con una resa drammatica e delicata è passato, attraversando l’imponente lavoro del compositore russo, a toni cupi e stridenti. Chiedendo all’orchestra il cesello delle dinamiche anche al massimo del volume, l’ha condotta come un oratore severo tra le esplosioni acustiche, dissonanze e sonorità percussive, in cui (pur nel favore cncesso agli archi) uscivano brillantissimi i fiati. Dopo un tale percorso, l’elegante Allegretto finale è stato pura elegia.