La lingua del Belcanto, la lingua di Verdi
di Roberta Pedrotti
Jessica Pratt, con il pianista James Vaughan, propone, in chiusura del Festival Verdi, un affascinante viaggio nella vocalità delle primedonne intorno all'opera di Verdi, centro fantasma che traspare in filigrana attraverso i cavalli di battaglia - da Rossini a Meyerbeer da Bellini a Donizetti e Mercadante - di alcune sue prime interpreti. Un tema che meriterebbe d'essere ulteriormente approfondito.
PARMA, 30 ottobre 2015 - Un concerto di canto al Festival Verdi senza nessun brano di Verdi in programma? È scherzo o è follia? È, a ben guardare, una riflessione ragionatissima con cui un'artista di oggi non si limita a proporre il meglio del suo repertorio, ma lo modella e lo organizza come un percorso raffinato nella storia della vocalità, attraverso una serie di pagine non verdiane strettamente legate al repertorio, alla formazione, alla cultura di prime o rinomate interpreti ottocentesche delle opere del Bussetano.
Il brano d'apertura, per esempio, potrebbe far storcere il naso per la proposta antiquata della Figlia del reggimento in lingua italiana, se oggi non sapessimo (o almeno dovremmo sapere) che non esiste solo la vetusta e brutta traduzione ma che Donizetti stesso rimise mano all'opera per realizzarne una vera e propria nuova versione, che debuttò a Milano pochi mesi dopo la prima parigina ed ebbe come protagonista Luigia Abbadia (1826-1896). Lodata per lo straordinario acume interpretativo e l'incisività drammatica, la Abbadia alternò, com'era uso delle grandi primedonne del primo Ottocento, ruoli oggi considerati schiettamente sopranili ad altri contraltili: oltre a Maria creò, infatti, Saffo per Pacini e Giulietta di Kelbar (che oggi, infatti viene affrontata da cantanti di entrambi i registri) per Verdi, di cui cantò spesso anche l'Elvira dell'Ernani. La sua importanza nella storia del canto è, però, dettata anche dalla sua attività di insegnante, avendo formato, fra gli altri, il tenore Giovan Battista De Negri (rinomato Otello) e il contralto Giuseppina Pasqua (prima Quickly).
La Abbadia debuttò come Arsace della Semiramide rossiniana, il cui ruolo eponimo fu prediletto da Marianna Barbieri Nini, la prima Lucrezia (I due Foscari), Gulnara (Il corsaro) e Lady Macbeth, e scritto per Isabella Colbran, modello esemplare di primadonna che combinava in sé contralto e soprano e che trovò epigone stilisticamente opposte nell'ampiezza tragica e nel virtuosismo più levigato di Giuditta Pasta, in quello più nervoso e inquieto, nelle variazioni minutissime di Maria Malibran.
La Pasta fu la prima interprete di Beatrice di Tenda, ruolo ricorrente nella carriera della controversa Sofia Loewe, prima, e sfortunata, Elvira dell'Ernani e Odabella nell'Attila, ma anche della più celebre Erminia Frezzolini, allieva di Garcia e di Nicola Tacchinardi, prima Giselda (I lombardi alla prima crociata) e Giovanna d'Arco, oltre che prima Camilla negli Orazi e i Curiazi di Mercadante. La scuola di Tacchinardi rimanda naturalmente alla figlia Fanny poi coniugata Persiani, prima interprete di Lucia di Lammermoor, ma anche ragione dell'inserimento della celeberrima “O luce di quest'anima” nella versione parigina di Linda di Chamounix e, quasi di conseguenza, identificata con un soprano di coloratura acuto e leggero, benché sia il dramma di Miss Ashton sia la frequentazione di opere come Ernani e I due Foscari dovrebbero stimolare più d'una riflessione.
Con I puritani, la Lucia creata dalla Tacchinardi Persiani e la Beatrice di Tenda che dalla Pasta passò nei repertorio delle grandi tragédienne del primo Ottocento furono titoli prediletti anche da Giuseppina Strepponi, che la vulgata vuole immolata sull'altare dell'esigentissimo ruolo di Abigaille. Sicuramente un cimento micidiale, ma che non può essere invocato come causa unica di un declino vocale sopraggiunto dopo un decennio d'intensissima attività e turbinose vicende personali. Tanto più che la frequentazione dei più accesi ruoli verdiani intrecciata con il belcanto di Rossini, Bellini, Donizetti, Meyerbeer caratterizza anche la carriera, per esempio, di Luigia Bendazzi, che nel 1857 fu la prima Amelia Grimaldi nel Simon Boccanegra (versione gratificata dalla cabaletta “Il palpito deh frena”), in generale specialista verdiana, ma anche assidua interprete di Meyerbeer, e dei ruoli più virtuosistici, come la Palmide del Crociato in Egitto, la cui prima interprete Henriette Meric-Lalande, allieva di Garcia e creatrice anche di Imogene (Il pirata), Alaide (La straniera), Lucrezia Borgia. Oppure val la pena di citare il caso di Rosina Penco, la prima Leonora del Trovatore, nonché frequente Violetta, Amelia (Un ballo in maschera), Luisa Miller, Elena d'Austria, Giovanna d'Arco, ma senza mai abbandonare i principali ruoli seri, buffi e semiseri di Rossini, Bellini e Donizetti. O, ancora, il caso particolarissimo di un'altra cantante preparata da Garcia: Jenny Lind, nota soprattutto per il puro virtuosismo, per la quale Verdi a Londra scrisse la parte di Amalia nei Masnadieri e che fece suo cavallo di battaglia, con opportune variazioni, la cavatina di quella Beatrice di Tenda così amata da primedonne di ben diverse caratteristiche, ascendenze sovente contraltili e carta vincente nella coloratura e nella declamazione di forza.
Il quadro che si compone attraverso Rossini (Semiramide), Meyerbeer (Il crociato in Egitto), Bellini (I puritani e Beatrice di Tenda), Donizetti (Lucia di Lammermoor e Linda di Chamounix) e Mercadante (Gli Orazi e i Curiazi) rivela in filigrana il mondo vocale ottocentesco in cui Verdi si colloca con precise peculiarità, ma non in antitesi. Anzi, suggerisce un equilibrio che spazza via, almeno idealmente, un eccesso di specializzazione e classificazione vocale: la tecnica non muta, non compare all'improvviso con Verdi un tipo nuovo di soprano, il “drammatico d'agilità” non esiste se non in definizioni di comodo ideate nel secolo scorso. Non muta nemmeno più di tanto lo stile, ché già si distinguono nei primi decenni dell'Ottocento tipologie interpretative diverse, personalità, per dire, “alla Pasta” o “alla Malibran”, legate ad aspetti diversi delle scuole antiche, interpreti di diversi aspetti della sensibilità moderna. Il soprano puro e quello contraltile condividono un'idea del Belcanto che rappresenta una civiltà musicale e canora, un ideale estetico attraverso il quale la personalità dell'artista si esprime e fa proprio il ruolo. Manuel Garcia, nel suo Trattato completo dell'arte del canto, ne traccia la mappa, ne scrive una sorta di dizionario ed elenca le armi espressive dell'artista nei diversi “stili”: canto spianato e fiorito, a sua volta distinto in canto d'agilità, di maniera (di grazia o di portamento) e di bravura (di forza, di slancio o di sbalzo).
Verdi fa parte di questo mondo e sarebbe un grave errore contrapporre la stilizzazione del Belcanto al dramma e al realismo: il teatro musicale esprime sempre il dramma, esprime sempre una sua realtà, ma attraverso diversi filtri estetici, diverse sensibilità. L'arte non può essere la verità, ne è sempre un'interpretazione,; un'astrazione o un'amplificazione, ma sempre un'interpretazione. Anche il verismo è una rilettura artistica della realtà, non potrebbe essere altrimenti: Santuzza canta, il coro si esprime come un'ordinata collettività, Turiddu alla fine della recita si rialza e raccoglie gli applausi.
Verdi esprime il dramma con un filtro diverso da quello rossiniano, ma il principio è il medesimo, quello del teatro in musica, la tecnica vocale dovrebbe essere la medesima e medesimi, quindi, gli strumenti del Belcanto.
Jessica Pratt, che di Verdi con assiduità relativa ha affrontato solo Gilda, ma ha debuttato anche come Giovanna d'Arco e Violetta, può essere l'interprete perfetta per sviluppare questa tesi, perché padrona come poche del linguaggio belcantista. Basti ascoltare la perfezione dei trilli a tutte le altezze, o la capacità rara di articolare la frase con senso di autentico legato e doviziosa varietà d'abbellimenti, anche i più minuti. Basti pensare alla stretta dell'introduzione dagli Orazi e i Curiazi di Mercadante “Di quai soavi palpiti”, che, vieppiù condensata con la soppressione dei pertichini corali, non potrebbe esser cantata, tantomeno a questi livelli, senza un controllo più che perfetto della respirazione. I centri non hanno la stessa ricchezza di armonici dell'acuto, ma proprio per questo è degna d'ogni lode l'emissione mai forzata, che in un teatro all'italiana delle dimensioni del Regio di Parma le permette di proiettare la voce come se stesse parlando naturalmente accanto a noi. Queste doti emergono soprattutto nei suoi grandi cavalli di battaglia, come “Qui la voce sua soave”, l'aria che forse più di ogni altra ne esalta le capacità poetiche, il valore drammatico e psicologico di mezzevoci, messe di voce, canto di coloratura in tutte le sue declinazioni. La Pratt conferma di aver fatto proprio il linguaggio del Belcanto, di averlo assimilato e di parlarlo fluentemente come una lingua madre. La lingua madre dell'opera ottocentesca, e dunque la stessa in cui Verdi ha scritto i suoi drammi, espresso la sua poetica.
L'approccio a Violetta, con l'aria del primo atto proposta come bis dedicato a Luisa Tetrazzini, assume dunque un ben preciso valore estetico, rappresenta il coronamento di un percorso ben articolato sul belcanto ottocentesco e sui suoi rapporti con l'interpretazione verdiana. Diremo poi che Violetta sia, ora, il ruolo giusto per Jessica Pratt? No, è l'affascinante sviluppo di una tesi, un saggio esemplare. Sulla resa del personaggio completo si sospende inevitabilmente il giudizio, ma l'impressione è che questa Madamigella Valery debba ancora mettersi perfettamente a fuoco per affermarsi nell'intera opera con il giusto mordente.
Quel che è mancato, al di là dell'indubbio valore intellettuale della proposta, è stata però proprio la capacità di coniugare sempre questo magistero stilistico, questa fluidissima musicalità che pare aver assimilato dalla nascita il senso del Belcanto ottocentesco, con una cura omogenea dello studio dei singoli brani. Per esempio, “D'una madre sventurata” dal Crociato in Egitto, già ascoltata nel memorabile concerto pesarese del 2012, viene letta prudentemente dal leggio e prudentemente spuntata del mordente dell'agilità di forza della prima parte. Per esempio, le abbiamo sentito cantare variazioni più belle e fantasiose, benché il tema del concerto suggerisca, dove possibile, il ricorso a soluzioni d'epoca, come nel caso della cadenza (bellissima, questa, e perfetta per la Pratt) di Jenny Lind per la Beatrice di Tenda. È, comunque, evidente, che il soprano, dopo una fulminante ascesa ben ancorata a solide basi tecniche, si trovi in un momento chiave della sua carriera, un momento di ricerca sul repertorio e sull'interpretazione da osservare con attenzione.
Quel che è mancato da parte del Festival è stata, poi, una completa valorizzazione di un programma come questo, che poteva facilmente passare come un semplice recital inserito un po' come corpo estraneo in una manifestazione monografica. Sarebbe bastato, anche senza imbastire una giornata di studi sulle primedonne verdiane, pubblicare delle note di sala più mirate e autorevoli di quelle generiche e confusionarie firmate da Giuseppe Martini.
In ogni caso, sia che si cercasse un'esegesi estetica sulla storia del canto, sia che ci si godesse senza pretese un'ora di Belcanto, il concerto è un grande successo, gli applausi assumono più volte i tratti dell'ovazione e solo quando, dopo “Ah fors'è lui”, la Pratt ripete a furor di popolo “O luce di quest'anima” il pubblico si arrende: non ha proprio preparato altri bis, “Il faut partir”, anzi, “Convien partir”.
foto Roberto Ricci