Specchio delle mie brame
di Michele Olivieri
Per le festività natalizie il Teatro dell’Opera di Dresda ha proposto un Lago dei cigni firmato dal coreografo John Inger che prende a prestito solo il titolo per raccontare un altro svolgimento, concentrandosi su temi velatamente contemporanei con un risultato storico discutibile.
DRESDA, 17 dicembre 2023 - Invece di piume di cigno e scarpette da punta, la versione di Inger si concentra su linguaggi relazionali, coinvolge aspetti intimi, affronta temi attuali, contesta l’oppressione e inneggia al rispetto e alla libertà. Sicuramente l’intento è nobile ma non basta a portare in scena un caposaldo come Il lago dei cigni senza assistere aIl lago dei cigni. Il coreografo crea una storia moderna sul mito del cigno attingendo dai racconti della letteratura popolare tedesca. La scenografia firmata da Leticia Gañán e Curt Allen Wilmer, EstudiosdeDos, i costumi di Salvador Mateu Andujar, le luci e le proiezioni, possono risultare seducenti a una pura visione estetica ma al contempo spiazzano perché privi di alcun rimando storico. Il primo atto è incorniciato da una staccionata a semicerchio formata da listarelle e il secondo (lungi dal pensare all’atto bianco) da un gigantesco cerchio a specchio che sovrasta la scena come a voler riflettere gli eccessi, i contenuti più nascosti e talvolta le nudità. Il nuovo arrangiamento sulle musiche di Pëtr Il’ič Čajkovskij dirette da Thomas Herzog non aggiunge nulla di interessante.
Il Lago dei Cigni è uno dei titoli più rappresentati nella storia del balletto. Un capolavoro dove si intrecciano pantomima, divertissement, danze di carattere (qui completamente snaturate), sfumature malinconiche, atmosfere eteree e su tutto l’antitesi tra bene e male. Si tratta di un patrimonio che appartiene all’immaginario collettivo e si rinnova di volta in volta con nuove interpretazioni e nuove creazioni, tenendo però come base la sua forza evocativa. A Dresda tutto ciò non si è visto. Negli anni siamo stati abituati a riletture inedite del Lago, come quella di Matthew Bourne oppure la versione di Fredrik Rydman, passando da Dada Masilo e Christopher Wheeldon senza tralasciare Mats Ek. Ognuna meritevole di plauso perché in grado di integrare il glorioso passato con la contemporaneità, lasciando ben presente la traccia a cui siamo soliti collegarla. Inger (con assistente Zoran Marković) lo ha reinterpretato per il Semperoper Ballett – che si conferma una solida compagnia di danza (bravissimi gli interpreti principali, tra cui Zarina Stahnke, Christian Belly, Jón Vallejo, Joseph Gray, Skyler Maxey Value, Ayaha Tsunaki, Leander Wilde) – ma ciò non basta a dare senso alla produzione in buona parte pasticciata e poco empatica nel suo filosofeggiare.
Si ritiene che Der geraubte Schleier (Il velo rubato) sia una delle primarie ispirazioni del balletto di Pëtr Il’ič Čajkovskij, che differisce però notevolmente dalla trama giunta fino a noi. Il libretto conobbe svariate modifiche, fu scritto da Vladimr Begicëv e Vasilij Gelcer, tratto ben appunto dal testo di Johann Karl August Musäus e ancor prima da alcuni racconti popolari tedeschi della fine del Settecento (Volksmärchen des Deutschen) fino alla revisione del fratello di Čajkovskij, Modest, per la versione di Petipa-Ivanov. Basti pensare che nella prima drammaturgia presentata a Mosca nel 1877 il Lago dei Cigni riscosse un insuccesso totale. Solo grazie a Modest Čajkovskij, Marius Petipa e Lev Ivanov arrivò il sospirato consenso di pubblico e critica. Tuttavia non esistono prove certe su chi abbia scritto la trama del balletto o da dove essa derivi esattamente. A Dresda sarebbe stato ottimale intitolare questo nuovo allestimento Il velo rubato (la storia infatti è totalmente diversa) senza innescare confronti e tanto meno inutili paragoni. Reinterpretare significa basarsi su una inedita situazione rispondente al momento attuale. Si può (e si deve per una giusta evoluzione dell’arte) revisionare il contenuto di un’opera, ma il fine dev’essere quello di un miglioramento nel rapporto con il presente. Lo si può fare anche senza freni, ma le concordanze storiche non possono venire meno. Se lo intitoli Il lago dei cigni ogni passaggio drammaturgico (qui firmato da Gregor Acuña-Pohl) deve essere in grado di affrontare il “tema” mantenendo chiara la storia, senza confonderla. Al contrario, se lo spettacolo che ha debuttato in prima mondiale per le festività natalizie alla Semperoper Dresden venisse analizzato sulla riduzione della fiaba di August Musäus (senza altri riferimenti) il discorso cambierebbe, perché la reinterpretazione coreografica del racconto fantastico che ruota attorno al tema della fanciulla-cigno potrebbe assumere interesse, malgrado qui l’allestimento distolga spesso dalla narrazione lasciando di positivo solo lo stile coreografico di Inger idoneo a dialogare con il corpo.
Non sempre nel repertorio classico osare porta i suoi frutti.
Michele Olivieri