L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il lago dei cigni alla Scala

I cigni di Ratmansky: il futuro nel passato

 di Pietro Gandetto

Prosegue a Milano il Lago dei Cigni nella nuova versione filologica di Ratmansky coprodotta dal Teatro alla Scala e dall’Opernhaus di Zurigo. Una produzione senza étoiles, ma ricca di talento.

Milano, 7 luglio 2016 - Parlare del Lago dei cigni è un po’ come parlare della Traviata o della Bohème che, in comune con il balletto musicato da Čajkovskij, hanno una notorietà e una diffusione tali da indurre l’interprete, il critico o il direttore a ritenere che tutto sia già stato detto e scritto, e che ogni considerazione appaia ultronea ove non addirittura ridondante. Per non cadere in questo equivoco, ci soccorre il coreografo Alexei Ratmansky, che, in questo allestimento coprodotto dalla Scala e dalla Opernhaus di Zurigo, ha aggiunto un ulteriore tassello nella storia di questo colosso della danza classica.

Ratmansky riprende la versione notata di Marius Petipa e Lev Ivanov risalente al debutto pietroburghese del 1895 e la reinventa con una nuova coreografia, tutta sua. Appronfondendo lo studio delle notazioni originali tra biblioteche, recensioni, testi di produzione, racconti dei ballerini e bozzetti dei costumi, Ratmansky si avvicina il più possibile all'originale.  Ma il risultato non è la riesumazione di una mummia, quanto piuttosto la creazione di un nuovo Lago il più possibile aderente al sentire moderno, a come Petipa e Ivanov avrebbero creato il balletto se fossero stati coreografi nel 2016.

Gli esiti non deludono.  Anzitutto, Ratmansly recupera il lessico tersocoreo originale fatto di intenzioni più delicate, di rapida esecuzione e con meno acrobazie, dove i passé si fermano al polpaccio, i developpé non superano i 90 gradi, e i deboulé sono eseguiti sulle mezze punte.  Siamo lontani dai salti, dalle spaccate e dallo sfoggio di virtuosismi che hanno caratterizzato la tradizione, specchio del lavoro decennale di ballerini e coreografi.

Le scene pastello di Jérôme Kaplan, pur non stupendo per originalità e carattere, sono comunque ripulite dalle incrostazioni di tradizione e anche se “più antiche” risultano essere “più moderne” rispetto a quello che siamo abituati a vedere. Così per i costumi, che guardano al futuro nella loro attualità e immediatezza. Le danzatrici hanno i capelli sciolti e raccolti nel classico boccolo che era di moda tra le signore dell’800;  in testa non hanno il tipico cerchietto di piume, ma una sobria papalina (non troppo bella per il vero, ma pur sempre ‘nuova’) e il classico tutù che “spara” ai lati lascia spazio a un tutù che sembra più una morbida gonna.

Quest’umanizzazione del balletto si materializza anche e soprattutto nell’aspetto e nella psicologia delle interpreti che sono sempre meno cigni, e sempre più fanciulle in carne e ossa.  Siamo consci che non trattasi di fanciulle “normali”, ma di creature dalla natura anfibia e misteriosa; ma, per esempio, la tipica posizione delle braccia introdotta da Agrippina Vaganova, che simboleggia le ali dei cigni, quasi scompare, per restituirci un’Odette e un’Odile che sono prima di tutto ragazze.  Poi ci sono cigni bambini, che si muovo con naturalezza e semplicità, e cigni neri, entrambi gruppi quasi assenti nelle classiche versioni del balletto. Coerente anche il recupero degli elementi di pantomima, che nelle edizioni successive a quella di Petipa furono trascurate e che qui invece riemergono con vigore accentuando il lato ‘umano’ della psicologia dei personaggi.

L’impostazione di Ratmansky si propaga anche nella lettura che Michail Jurowski dà della partitura di Čajkovskij. Ascoltando l’orchestra si ha dapprima l’impressione che i tempi siano davvero troppo incalzanti rispetto al Čajkovskij che le nostre orecchie sono abituate a sentire nel Lago. Ma a una più attenta analisi si comprende i tempi sono quelli originali e che l’estrema dilatazione ritmica tipica della tradizione russa discende del rilievo dato al virtuosismo (che qui, invece, è invero assente).  La direzione di Michail Jurowski, coerente con l’impianto dello spettacolo, si palesa cristallina nella resa dei motivi orchestrali, generosa nel fraseggio, anche se forse un po’ avara di sfumature e colori, in quanto gravitante su un costante forte/mezzoforte.

La palma della serata alla coppia Claudio Coviello, nel ruolo di Sigfried, e Marco Agostino, in quello di Benno. Coviello si conferma interprete raffinato e capace di emozionare per l’estrema poesia che ripone in ogni sguardo, movimento e gesto.  Agostino dà sfoggio di una danza virile, agile nelle grandi arcate e sempre presente nelle scene più rilevanti. E questo non è un caso, perché il ruolo del miglior amico Benno è in assoluto rilievo in questa versione.  Meno convincente è parso invece il contributo di Vittoria Valerio nel ruolo di Odette/Odile, che, pur nell’indiscutibile solidità tecnica, non ha colpito per delicatezza e drammaticitià, doti che invece si ci aspetta di trovare in un ruolo come questo.

Completavano il cast Corpo di Ballo e Orchestra del Teatro alla Scala e alcuni allievi della Scuola di Ballo dell'Accademia Teatro alla Scala.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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