Smarrirsi nel mito
Sempre lodevole l'impegno del Teatro Grande di Brescia a favore della danza, giustamente premiato da un pubblico numeroso e attento, anche se la prima italiana di Callas, prodotto dal Ballet du Grand Théâtre de Genève, non convince del tutto.
BRESCIA, 6 dicembre 2018 - Prima italiana per il balletto Callas, prodotto dal Ballet du Grand Théâtre de Genève al Teatro Grande di Brescia, che, al solito, si fa trovare pronto a rispondere con una cospicua presenza di pubblico agli appuntamenti di danza.
Se il pubblico bresciano risponde alle attese positive, lo stesso non si può dire per la coreografia di Reinhild Hoffmann, che riassemblava una creazione originale di Manfred Voss; le quattro righe introduttive, firmate dalla coreografa medesima, introducono lo spettatore a non aspettarsi la narrazione della vita di Maria Callas, bensì “la parte dei sacrifici e dei successi della sua carriera”. Ebbene, l'idea, non particolarmente originale, prevedeva dunque un racconto dell'esistenza del celebre soprano attraverso le sue emozioni, quelle vissute da dietro il sipario, e in effetti la scenografia di Johannes Schütz prevede un grande sipario rosso sul fondo, per dare l'idea di trovarsi in quinta a osservare ciò che accade nella vita di un'artista oltre l'immagine della diva.
Il problema è che se si vuole raccontare l'interiorità, oltretutto un'interiorità assai complessa, deve comunque esistere un piano descrittivo, una drammaturgia, una sequenzialità che consenta a un uno spettatore esterno di comprenderne gli sviluppi e l'essenza. Se noi ragioniamo sulle grandi scene di pazzia di Bellini, Donizetti o sul Sonnambulismo della Lady nel Macbeth verdiano noteremo come sempre un altro personaggio lo racconti in maniera razionale, che sia il Conte Rodolfo con i suoi pertichini o Raimondo con un'aria.
La scelta musicale è stata quella di accompagnare gli otto numeri principali con alcune delle arie più famose del repertorio lirico di Maria Callas, ma senza un vero e proprio costrutto. Capita sovente che le prime battute dei brani scelti vengano ripetuti all'infinito. Potrebbe rappresentare la nevrosi dell'ineriorità, ma questa nevrosi va descritta, tradotta in un altro linguaggio a chi non la sta provando e quindi non è pienamente in grado di decifrarne il codice, o, almeno, di sentirsi coinvolto da esso.
Un'altra scelta piuttosto discutibile è quella di mettere spesso, troppo spesso, ballerini maschi in abiti femminili. Ormai non fa più scandalo, le Drag Queen sono ormai note al grande pubblico e, senza una drammaturgia costruita, appare una scelta semplicemente stucchevole e senza costrutto logico. Facciamo un altro esempio a proposito: nel quarto numero ascoltiamo l'esecuzione di Maria Callas di “Caro nome”, dal Rigoletto di Verdi, con la vestizione di un uomo pelato e barbuto con uno sgargiante abito da sera rosso. Appena finisce questa vestizione (di cui ci si sforza vanamente di trovare il senso), il sipario sul fondo si dischiude e si scorge, di spalle, una donna ricevere applausi, si suppone, per l'esecuzione dell'aria che stavamo ascoltando. Allora perché farle indossare un kimono da Cio-Cio-San?
Poco si può dire della resa tecnica da parte di una compagnia di ballo più che discreta, perché di passi di danza ne abbiamo visti pochi, pochissimi. Nei centoquindici minuti di spettacolo, contando numerosi cambi scena di lunghezza eccessiva, abbiamo notato come l'impegno richiesto ai danzatori fosse di poco superiore a quello di un mimo. Pochissimi movimenti (e mai un passo degno di questo nome, salvo qualche piroetta), spesso limitati a qualche camminata che avrebbe potuto esser benissimo eseguita da un qualsiasi attore.
Nei lunghi momenti di silenzio, quando non si ascoltava alcuna musica e i ballerini si muovevano al solo suono dei loro passi, abbiamo assistito a qualche sparuto accenno tersicoreo, ma ci si fermava lì.
Perché non aggiungere qualche breve inserto solo strumentale, giusto per aiutare a tener alta la tensione, anche con un semplice passo a due, o un assolo? Maria Callas debuttò all'Arena di Verona con la Gioconda di Ponchielli: perché non proporre un brano dell'autore cremonese? Ne ha scritti numerosi e molto belli.
Il finale è poco chiaro, tanto che non si comprendeva bene se lo spettacolo fosse terminato o meno.
Molto belli i costumi di Joachim Herzog e conformi allo spettacolo le luci di Alexander Koppelmann. L'assistente alla coreografia era Susan Barnett, la drammaturgia (sconnessa o inesistente) era a cura di Bernd Wilms.
L'équipe e gli interpreti erano tutti del Ballet du Grand Théâtre de Genève.
Le musiche utilizzate erano tratte da opere di Léo Delibes, Giuseppe Verdi, Ambroise Thomas, Georges Bizet e Christoph Willibald Gluck. Probabilmente le registrazioni erano tratte da un recital, in quanto prive di pertichini e coro.
foto Gregory Batardon