Per il mondo e per un Sorcio
Gianfranco Mariotti lascia un vuoto incolmabile per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e per il mondo intero.
Un uomo che rispondeva personalmente alle rimostranze di una ragazzina di tredici anni e lo faceva senza nessuna sufficienza paternalistica, seriamente, dettagliatamente, intraprendendo quella che sarebbe diventata una lunga corrispondenza. Questo era Gianfranco Mariotti, non solo per me: tanti si potranno riconoscere.
Dopo aver contestato una sua intervista in cui dichiarava che Isabella di Azio Corghi fosse una nuova commissione pensata per "superare lo iato" fra giovani e opera (piccola querelle da cui nacque anche il rapporto con il compositore: chiaramente, al di là delle semplificazioni giornalistiche, Isabella era ben altro) e ben prima di dedicarmi alla critica musicale e di seguire il Rossini Opera Festival in veste ufficiale, ogni anno all'uscita del cartellone prendevo carta e penna per scrivere a Mariotti considerazioni e aspettative, poi, tornata a casa dopo il Festival, partiva un'altra letterina con i commenti su quanto avevo visto. Seppi poi che i pensieri di quell'adolescente innamorata persa di Rossini erano condivisi anche con il direttore artistico Luigi Ferrari: sapeva dare importanza a tutti, ascoltare e dialogare. Così aiutava a crescere e già solo quella sua prima lettera ricevuta quando avevo quattordici anni mi aprì il mondo della poetica rossiniana, la scoperta di quell'intrico stupefacente di dolore e sarcasmo, leggerezza e profondità, straniamento, dramma e commedia. Finché è rimasto in carica come sovrintendente ogni anno, in agosto, andavo a trovarlo nel suo ufficio: Alexia, Sabrina, tutto il personale che ormai mi conosceva mi accoglieva e mi annunciava. E ricordo il primo incontro, quando mi mostrò le ultime foto di Jean Pierre Ponnelle al lavoro e parlammo della cabaletta del tenore in Guillaume Tell in rapporto alla Pira del Trovatore. Parlammo della facilità dell'approccio all'opera per i bambini, abituati alla sospensione fiabesca dell'incredulità (citò il "cane con gli occhi grandi come macine di un mulino" nell'Acciarino di Andersen), rispetto al disincanto degli adulti. L'ultima volta, ancora, al termine del suo ultimo Rof da sovrintendente, mi raccontava della responsabilità del suo ruolo, delle carriere che con Ferrari e Zedda aveva contribuito a lanciare ma anche di debutti meno riusciti che avevano pesato nel percorso di alcuni artisti. Poi, ancora, ogni volta in cui ci si vedeva in teatro o per strada, abbracci commossi. Ero sempre il suo "sorcio", la ragazzina che si intrufolava sempre ovunque per non perdersi una nota, in prova o in recita.
Oggi il "sorcio" è un po' orfano, perché grazie a Gianfranco Mariotti il Rof è cresciuto come una famiglia e lui me ne ha fatta sentire parte. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ricorda che uomo fosse, quanto ha saputo dare, senza mai sottovalutare l'interlocutore, rendendo merito al lavoro e alla massione, ma senza mielosa condiscendenza. Abbiamo anche discusso, difeso opinioni diverse, confrontato punti di vista. Quest'uomo straordinario era Gianfranco Mariotti.
Per il mondo, lo leggiamo nel profluvio di commenti ufficiali e personali, commossi o formali, Gianfranco Mariotti è stato un uomo di vera cultura, il creatore di qualcosa di straordinario con l'intuizione formidabile di fare di Pesaro un "laboratorio di musicologia applicata" dove il lavoro di ricerca della Fondazione Rossini trovasse uno sbocco teatrale. Capì già quasi mezzo secolo fa che non si poteva prescindere da una riflessione comune con i registi, facendo del Festival non solo la casa delle edizioni critiche, di voci e bacchette, ma anche di Pizzi e Ronconi, Vick e Michieletto. Capì che le competenze, in ogni ambito di lavoro, fossero fondamentali, come fosse necessario fare squadra, anche con discussioni e contrasti, ma sempre con un obiettivo comune, con un fulcro che era Rossini. C'erano con lui Bruno Cagli, Alberto Zedda, Luigi Ferrari a dibattere e costruire, a creare non una kermesse, ma un vero organismo culturale, un polo etico, politico anche in senso ampio e nobile di servizio alla polis, alla comunità. Il marketing del Rof, quello che lo ha reso un punto di riferimento e uno dei più importanti festival al mondo, non è nato come strategia di comuncazione, ma come qualità, sincera dedizione al lavoro nella musica e nel teatro, all'opera del genio pesarese. Più della soddisfazione del momento (che spesso c'è stata, e memorabile) è il principio a contare, a fare la forza di una manifestazione a cui tutti, dal pubblico, agli amministrativi, agli artisti, ha a cuore il risultato ("I care", avrebbe detto Don Milani). Ed è questo che ci manca, che avremmo voluto facesse scuola sull'esempio di figure illuminate come Mariotti e che invece oggi si invoca da più parti: una progettualità culturale di ampio respiro, che non cerchi il consenso ma il contenuto, che ricerchi, che osi. Mariotti diceva che lo scopo del festival non era lusingare lo spettatore, appagarlo nelle sue aspettative, ma proporre, scuotere, fare anche discutere. Per questo il Rof ci è entrato nel cuore: perché ha osato, ci ha sorpreso, ci ha fatto anche arrabbiare, ma sempre con amore. Grazie all'idea di un geniale giovane assessore alla cultura, un medico folgorato da Rossini, che aveva visto le edizioni di Abbado e Ponnelle alla Scala e che, raccontava, aveva un nonno che canticchiava (lo scoprì solo decenni dopo) temi da Matilde di Shabran.
Al Sorcio, con le lacrime agli occhi, manca tanto il suo sovrintendente, senza parole e con la responsabilità di essere sempre degna della sua eredità etica e del suo affetto, al mondo tutto oggi mancano figure come la sua.