Un classico del repertorio contemporaneo
di Michele Olivieri
Café Müller
coreografia di Pina Bausch
libro di 96 pagine e DVD
ISBN 978-2851817273
Editeur L'Arche; 1° edizione (9 dicembre 2010)
Una figura spezza il brusio di sottofondo iniziale: il risveglio è cupo, forse è un un incubo, un brutto sogno o la realtà che ritorna prepotente come un fantasma dall’aldilà? La vicenda si sviluppa interamente in una sala da bar, l’atmosfera è tormentata da frequenti ripetizioni e da una sorta di emarginazione dove lo stato d’ansia viene sconvolto dall’arrivo di altre presenze lecite od ostili, palesando il trauma. Strane coincidenze e inquietanti avvenimenti si trasformano passo dopo passo in una verità. Quello che la Bausch riesce a compiere con la sua opera, sicuramente la più celebre e celebrata (e copiata), è un’operazione per niente semplice, una messa in scena di recupero e di integrazione sulla disciplina contemporanea, in un concerto di riferimenti (apparentemente velati) che hanno reso la performance immortale per drammaturgia ed intensità stilistica. L’intento della coreografa, a livello tecnico, non è quello di aggiungere elementi ancor più oscuri, ma bensì quello di eliminare quegli elementi familiari e rassicuranti a cui la danza accademica aveva abituato, “ci sono molte cose che la gente non pensa siano danza e che, invece, per me lo sono”!
Ciò di cui si necessita a primo acchito è spostare le sedie, sempre più in maniera febbrile e forsennata, come a chiudere la porta da cui si è entrati - ma che essendo girevole individua un interrogativo movimento continuo di persone - prima di poterne aprire un’altra forse più rasserenante. L’estremo tentativo di scacciare il turbamento di un’impotenza che si trova in balia delle emozioni, nell’attesa snervante della riproposizione come trance sonnambolica. La chiave sbagliata nel non trovare la via d’uscita acutizza la solitudine e l’isolamento, in quanto niente è più scioccante della mancanza di controllo su ciò che ci appartiene, mentalmente e fisicamente. Café Müller con alcuni peculiari interpreti del Tanztheater Wuppertal (Malou Airaudo, Pina Bausch, Dominique Mercy, Jan Minarik, Nazareth Panadero, Jean-Laurent Sasportes, con scene e costumi di Rolf Borzik) restituisce una sequela di immagini sui caffè europei in tempo di guerra con sadico senso di razzia, potere e smisurata passione insana. L’atto di forza nella pièce rivela (tra le righe) quel controllo dell’arte, quella necessità di veicolare l’ideologia e i temi fondamentali di un’autorità che non si limita alla supervisione dei contenuti, ma mette mano perfino alle forme e all’animo. Sono figure quelle della Bausch cariche di respiri e di memoria, quella memoria ancora oggi ingombrante nello spirito di sopraffazione, nelle figure schernite, bollate, degenerate, bisognose di un riscatto o di un abbraccio che liberi dal ventre dell’umanità. Donne spettrali vagano a zonzo attorno, contro e sopra sedie e tavoli come fossero macerie di un qualcosa ormai perduto per sempre... Tutto nello spettacolo è fatto per ricreare mondi di sussurri, ombre, voci nell’etere, rispolverando il gusto sublime per l’arte grazie alla singolare visione della coreografa tedesca e dei suoi danzatori, che insieme giganteggiano, conducendoci in ipotetiche camere oscure piene di scricchiolii e sonorità strane, dove la tensione non viene mai meno. Gli artisti si abbattono addosso ai muri, cadono impetuosamente a terra, i corpi bordeggiano e ciondolano da un lato all’altro quasi fossero pendoli in ardui labirinti cui è impossibile trovare l’uscita, o forse impeti travolgenti dai quali non si rinasce senza aiuto e protezione. L’ambientazione è perlopiù fuligginosa, quasi avvolta nel buio, o al contrario illuminata debolmente, l’aria appare nebbiosa, come è nebbioso il senso compatto dei dettagli in così ricca simbologia: un tema iconografico nel quale è rappresentata una danza tra uomini e scheletri. I passi, l’andatura e l’errare ad una prima visione risultano misteriosi ma i frangenti tonfi sono poderosi, e sfoderano dei passi notevoli, contribuendo ad un tutt’uno tra scena e platea, ogni singola entità è sorprendente ed elevata, capace di mutare la visione e la resa performativa con variazioni coreutiche sulla velocità nell’unità di tempo. La musica di Purcell, con il contrasto del richiamo al barocco, stempera il clima d’abbandono nello spettacolo che, a distanza di anni, appare inalterato, mai fuori moda con quelle mani protese in richiesta d’aiuto. La bellezza sta nella forte sensazione vissuta dallo spettatore mentre la coreografa bilancia il corpo che non è altro che manifestazione dell’intenzione, senza declinare il personale punto di vista, come se ci fosse qualcosa di terribile nel luogo/spazio, qualcosa che si percepisce, ma non si riesce ad individuare, qualcosa che appartiene a sussistenze già vissute. Café Müller risale al 1978, la dimensione immaginativa è kafkiana, l’inquietudine si insinua lentamente e quindi in maniera più potente, la danza di matrice moderata e gradualistica è nuova per quel tempo, gli arti tesi in costante tensione, scongiurante e supplichevole nel movimento così mesto, quasi fosse una preghiera di supplica in attesa della grazia ricevuta: gli indizi sono tutti lì nel gesto, nelle dinamiche, negli occhi socchiusi, nello sguardo perduto. Una drammaturgia intelligente e al contempo spaventosa, proprio come quegli antichi calchi raffiguranti il volto dei defunti riscattati dalla “sottoveste bianca” ad esprimere la catarsi. Speranza, forte dose di inaspettato, senso di carenza e al contempo di aderenza, sono più che sufficienti per rendere Café Müller uno dei grandi classici del repertorio contemporaneo di tutti i tempi. Quasi un preludio ad un altro famoso spettacolo della Bausch – Kontakthof – quel “luogo di contatti” dove il tocco possiede ad ogni secondo una memoria per il risveglio.
Michele Olivieri