Quel che luce il mondo adora
di Roberta Pedrotti
Luigi e Federico Ricci
Crispino e la Comare
Colaianni, Bonfadelli, Boscolo, Olivieri, Spina, Monaco, Paesano
direttore Jader Bignamini
regista Alessandro Talevi
Orchestra Internazionale d'Italia
Coro del Teatro Petruzzelli di Bari
Martina Franca, 13 e 29 luglio 2013
DVD Dynamic 37675, 2015
Non illudiamoci di avere per le mani il capolavoro perduto, di riscoprire un'opera che ha goduto di una certa popolarità prima di consegnare la sua memoria quasi esclusivamente ai soprani di coloratura desiderosi di gorgheggiare “Io non son più l'Annetta” (o, se vogliamo, alle sapide righe che Camilleri dedica alla biografia dei fratelli Ricci nel Birraio di Preston): Crispino e la Comare è una partitura fluida, ben scritta, dalla vena felice, piacevole, sebbene non vi sia una scena che, una volta apprezzata nel suo contesto, si imprima nella memoria al calare del sipario. E, tuttavia, la ripresa itriana rivela che qualche asso nella manica da sfoderare questo “melodramma fantastico-giocoso in quattro atti”, a rappresentarlo come si deve, ce l'ha eccome.
Il soggetto è quello fiabesco del povero onesto che riesce a ottenere benessere grazie a un magico benefattore ma verrà punito per la superbia derivatane (basti ricordare Il pescatore e sua moglie dei fratelli Grimm, in cui è però un'ingombrante Santippe a perdere il senso della misura strapazzando il meschinello). Poiché, tuttavia, la Comare che soccorre l'umile ciabattino Crispino è nientemeno che la Signora con la falce, nella commedia spira un'aria sinistra e, en passant, ci scappa anche il morto, metodo un tantino drastico per sciogliere un intreccio secondario di giovani amanti osteggiati dal solito tutore-rivale. Trattando questa materia, il buon Francesco Maria Piave, tanto tiranneggiato da Verdi, svela un'insperata verve e crea con buon ritmo e arguzia satirica una commedia amara che non sarebbe spiaciuta a Zavattini o Monicelli.
Crispino, in primis, è nominalmente un buffo e di questa tradizione conserva alcune espressioni tipiche, ma possiede un'umanità svincolata da maschere e stereotipi sia nella sincerità degli affetti, sia negli atteggiamenti più meschini e in un degrado morale che lo avvicinano a certi personaggi di Alberto Sordi. In questo senso Domenico Colaianni non è men che straordinario: epigono della grande stagione attoriale della commedia all'italiana crea un personaggio a tratti sgradevole, quando la boria monta e il collo della bottiglia comincia ad accompagnarlo e renderlo sempre più irascibile, e che pure resta accattivante, coinvolgente, ispira empatia perché profondamente autentico, fino a una presa di coscienza finale sincera e non moralistica. Il suo è un vero e proprio recitar cantando reso nel migliore dei modi grazie anche al lavoro registico di Alessandro Talevi, ancora una volta abile autore di una messa in scena godibile e intelligente.
L'azione scorre fluida in un campiello veneziano fra lavori in corso, caffè con tavolini all'aperto, rievocazioni storiche e turisti armati di smartphone e avidi di fotografie: potrebbero ben essere i giorni nostri, ma nei protagonisti si riconoscono i tipi della commedia all'italiana, medici bellimbusti e cialtroni che potrebbero essere i De Sica o i Mastroianni di turno, un'Annetta, moglie di Crispino, sciupata dalle ristrettezze e da un'esistenza grigia come potrebbe essere un'Alice Mascetti o una Pina Fantozzi, se non l'animasse la vitalità, e se non trasparisse un fascino un po' appassito ma ancora piacente, di un'Anna Magnani in Bellissima. Il tema del medico improvvisato che approfittando di fortuna e coincidenze ha la meglio, nella credulità popolare, sulla scienza propriamente detta ha una sua triste attualità, fra deleterie fantasie alcaline e antivacciniste, come ce l'hanno l'esaltazione della ricchezza e dell'apparenza ("ciò che luce il mondo adora"), la scena dell'infortunio sul lavoro del povero muratore Bortolo (il primo “miracolato” da Crispino) e l'immeritata repentina fortuna del protagonista, rappresentata da Talevi in primo incontro con la Comare che ammicca decisamente al mondo televisivo e ai reality show. Con tutta questa carne al fuoco, però, non calca troppo la mano, non eccede mai nel parallelismo con la quotidianità, con la denuncia: lascia la satira sottintesa per chi vuole intendere, né trasforma la Comare in una De Filippi o una Clerici, lasciandole la sua ambiguità fino alla scena infera che prelude all'epilogo e che la vede come un novello Commendatore di fronte a un Crispino che è, insieme, Don Giovanni e Leporello.
Se godiamo appieno della commedia di Piave e dei fratelli Ricci lo dobbiamo senza dubbio alla sapienza con cui Talevi soppesa gli ingredienti e gestisce tutti i registri espressivi con una recitazione perfettamente curata in tutti gli interpreti sulla scena. Nondimeno Jader Bignamini sul podio ribadisce il suo valore: nella partitura non memorabile se non per la grazia sincera con cui si fonde al bel libretto, la concertazione del maestro cremasco mette in luce il buon mestiere degli autori e ne plasma con arguzia la teatralità scandendo un bel ritmo drammatico e valorizzando tutti gli elementi, i debiti formali con Rossini e Donizetti, gli slanci melodici e gli impasti timbrici più tipici della metà dell'Ottocento (l'opera è del 1850), gli aromi più popolari. Non ci sfiora mai l'impressione di un genere sopravvissuto, di un'opera fuori tempo massimo, bensì la consapevolezza della peculiarità della commedia in musica successiva a quell'ultima grande stagione chiusa con Don Pasquale e offuscata poi da quelle scintillanti stelle solitarie che sono Falstaff e Gianni Schicchi.
Oltre che dal citato Colaianni, la commedia è servita alla perfezione da Stefania Bonfadelli, che coglie appieno la femminilità crepuscolare di Annetta, il suo spirito e le sue frustrazioni, facendo di “Io non son più l'Annetta” un bel pezzo di teatro più che un semplice sfoggio di coloratura. Romina Boscolo è una Comare giocosamente diva, compiaciuta, divertita e capace d'esser sinistra, giocando su un timbro contraltile che si presta bene alla caricatura, all'autoironia consapevole del proprio potere: complice Talevi, è saldissimo l'equilibrio fra soprannaturale, commedia, tragedia, apologo morale.
Come accennato, l'idillio amoroso fra il Contino del Fiore e Lisetta è tanto marginale da permetterci appena di registrare la gradevolezza con cui Fabrizio Paesano intona la sua languida sortita e un duetto (in cui cercherebbe in un medico un Figaro o un Malatesta disposto ad aiutarlo) o l'incisività con cui Carmine Monaco tratteggia il rivale morituro Asdrubale in tutta la sua sgradevolezza di tirchio e insensibile donnaiolo, mentre a Lucia Conte restano da cantare poche frasette per lo più nascosta nel coro o unita all'amante.
Viceversa, gli equilibri dell'opera privilegiano i rapporti sociali, economici, professionali, e spicca nel terzo atto un terzetto di bassi e baritoni che unisce a Crispino i medici Fabrizio e Mirabolano: quest'ultimo è interpretato, assai bene, da Alessandro Spina e compare solo nei numeri d'assieme, mentre maggior rilievo ha Fabrizio, cui spetta anche un'aria di un certo respiro e che Mattia Olivieri rende al meglio per presenza vocale, articolazione del testo e personalità scenica, spiaccando così fra i protagonisti come contraltare ideale, disinvolto e pieno di sé, del ciarlatano Crispino.
Bravo anche Francesco Castoro nel piccolo ruolo di Bortolo, benissimo il coro del Petruzzelli di Bari e l'orchestra Internazionale d'Italia (la mano di Bignamini si sente, eccome!), così come i figuranti.
Non serve illudersi di aver per le mani un capolavoro della storia della musica. Basta godersi una bella, bellissima esecuzione di un'opera originale assaporando lo spirito che collega strettamente l'evoluzione del nostro melodramma buffo a quella della miglior commedia cinematografica, anche surreale, amara, crudele.