Norimberga: processo a Wagner
di Roberta Pedrotti
R. Wagner
Die Meistersinger von Nürnberg
Volle, Vogt, Schwanewilms, Kränzle, Groissböck, Behle, Lehmkuhl
direttore Philippe Jordan
regia Barrie Kosky
orchestra e coro del Festival di Bayreuth
Bayreuth, 2017
2 DVD Deutsche Grammophon 00440 073 5450 GH2, 2018
Die Meistersinger von Nurberg è un capolavoro, ma un capolavoro ideologicamente ingombrante, con quell'inno finale alla pura arte tedesca che, con il senno dei posteri, diventa materia rischiosa, da prender con le pinze, presaga o strumentalizzata che sia e si ritenga. A Bayreuth, per l'ultima produzione tuttora nel repertorio del Festival, non ci si è sottratti alle implicazioni problematiche del testo: anzi, si è scelta proprio la commedia “estetica” di Wagner per invitare per la prima volta sul sacro colle un regista di origini ebraiche. Non un'opzione politica o d'immagine, bensì un potente progetto artistico, giacché il regista è prima di tutto una delle più brillanti personalità del teatro musicale contemporaneo, il cinquantaduenne australiano Barrie Kosky, di casa a Londra e Berlino, apparso in Italia solo fugacemente all'Opera di Roma per la ripresa della sua Zauberflöte.
Il sipario si apre immediatamente sul preludio: siamo a Villa Wahnfried e Wagner, di ritorno da una passeggiata, accoglie insieme con la moglie Cosima e una cameriera la visita del suocero Franz Liszt e del direttore d'orchestra Hermann Levi. Quest'ultimo vorrebbe mettersi al lavoro sulle partiture del maestro, è oggetto di qualche sguardo di disapprovazione dall'Abate Liszt, è incoraggiato da Wagner a unirsi almeno formalmente alla preghiera cristiana; infine il compositore, dopo aver apprezzato essenze e altre raffinatezze appena ricevute, si mette al pianoforte con il suocero per far ascoltare il tema che sarà dell'apoteosi finale, mentre dallo strumento escono altri cloni di Wagner, fanciulli e giovanotti. La pantomima è gestita con garbo spassosissimo, precisione millimetrica, recitazione superlativa. E ogni filo tornerà a riallacciarsi nel corso delle cinque ore dell'opera.
Wagner è Hans Sachs, l'artista affermato e ammirato, il punto di riferimento, ma David è un altro sé stesso, giovane inesperto ed entusiasta pieno di idee e propositi confusi, Walther un nobile ed eroico Richard nel fiore degli anni, in attesa di affermarsi ma ispirato dal sacro fuoco dell'arte. Liszt è ovviamente il decano Pogner e sua figlia Cosima non può che esser Eva. Allo zelante ma bistrattato Levi spettano i panni di Beckmesser: vero è che l'autore pensava all'odiato critico Eduard Hanslick, ma la sintesi di “tutto ciò che Wagner odiava” (parole di Kosky) nel cantore-censore e lo sviluppo dello spettacolo rendono l'identificazione più che azzeccata e coerente. Non si tratta, d'altra parte, di un trattato biografico, Kosky non ambisce a sovrapporre storia e libretto, ma associa liberamente persone e personaggi in una riflessione intelligente sull'uomo Wagner e sulla sua estetica.
Tutto inizia in commedia: si ride, anche di gusto, già nel Preludio, l'identificazione fra personaggi storici e fittizi serve all'intreccio e non lo appesantisce. La mano di Kosky nell'organizzare l'azione è felice e leggiadra, mai banale, e insinua così sottilmente un male oscuro. Nel secondo atto il salottino di Wanhfried si è dileguato, il prato per la festa di San Giovanni è serrato da un ambiente più ampio, nel quale si riconosce il salone dove si svolgerà il processo di Norimberga. Ma tutto scorre normalmente, si potrebbe anche non far caso a quelle pareti, anche perché i cittadini, gli apprendisti e i Cantori (simpaticissimi) sono tutti in abiti del Cinquecento tedesco. Però, quando la burla ai danni di Beckmesser degenera nella baruffa notturna, questa si trasforma in una sorta di Pogrom, in mezzo alla folla inferocita si gonfia come un enorme pallone la caricatura oscena dell'ebreo dei proclami antisemiti nazifascisti. Il mondo sorridente in cui si dibatteva di poesia e i Cantori si riunivano intorno a un delizioso servizio in porcellana (lo stesso di casa Wagner, e anche qui gettando qualche occhiata fra lo stupito, l'irridente e il contrariato quando Beckmesser evita la merenda comune per consumare le sue personali vivande kosher) è svanito e ha mostrato un rovescio mostruoso e violento. Ma non è forse sempre così, quando nell'apparente normalità si trascurano i segnali inquietanti e si lascia crescere una belva pronta a esplodere improvvisa e incontrollabile? E allora al turbamento del finale secondo segue quello più sottile che accompagna il monologo di Sachs in apertura del terzo atto, in cui si stupisce delle conseguenze della sua burla e infine si discolpa, attribuendo quell'accesso di follia a cause esterne, sovrannaturali. È visibilmente scosso, ma rifiuta la responsabilità. La sala del processo, intanto, ha preso forma, l'orologio che la domina corre all'impazzata: i posteri guardano Wagner, mentre la gara dei Cantori si compie, e il Wagner maturo vede il giovane sé stesso guadagnare il rango d'artista che gli compete, il popolo decretare il suo trionfo. Tutto si compie come previsto, ma il Wagner artista è anche un uomo, un uomo dalla storia controversa. Kosky non assolve, non condanna: ricorda, ricorda che intorno al compositore di genio ribolle un'epoca che ha prodotto orrori e capolavori, intellettuali sublimi che non hanno saputo capire e fermare il mostro che avrebbe avvelenato l'Europa fino ai giorni nostri. Wagner-Sachs rimane solo sulla scena, nella sala del tribunale e intonando il suo inno finale all'arte lo fa dissolvere, mentre il palco è invaso da un'intera orchestra. Le debolezze, le colpe, le strumentalizzazioni, le controversie degli uomini non si dimenticano e non si cancellano, ma di Wagner resta la musica, l'arte. Kosky non emette una sentenza sull'uomo, così complesso, molteplice, tutto dubbi e certezze nelle sue mille vite di rivoluzionario e profeta; Kosky innalza la gloria della sua arte, la lascia sola, libera sulla scena, padrona del teatro, lascito unico e prezioso. La commedia man mano si è evoluta, dalla quotidianità di Wahnfried al racconto brillante e simbolico, dal serpeggiare di ombre insidiose che fanno riflettere sulle lusinghe e la banalità del male, alla resa dei conti e la liberazione dell'arte. Kosky calibra ogni dettagli a meraviglia, diverte, turba e commuove, coordina un gioco scenico d'impressionante precisione, ispira prove attoriali strepitose.
I tre Wagner sono il mercuriale David di Daniel Behle, il Walther magari non proprio insuperabile nel Preislied ma determinato di Klaus Florian Vogt, il Sachs di Michael Volle riflessivo eppure intimamente così persuaso del proprio valore etico e poetico di artista da poter superare ogni cosa, osservare con sguardo paterno la propria immaturità, la conquista della donna amata (e figlia di tanto padre...). Lui è Richard Wagner, è sicuro di sé, è orgoglioso della propria arte, è convinto del suo valore, ma sa anche cosa siano il dubbio e l'inquietudine, vede l'orrore, si interroga su di esso e trova nella musica, nel suo ideale estetico risposta e conforto, la propria gloria e, forse, una via di fuga.
Gunther Groissbock è un Pogner/ Liszt davvero impagabile e se Anna Schwanewilms non si può dire abbia la freschezza e la liliale malizia che ci si aspetterebbe da Eva, la sua voce un po' asciutta e non priva di qualche spigolo calza a pennello alla sagoma di Cosima, futura arcigna custode dell'eredità di Bayreuth e artefice delle sue derive. Piacevole la Magdalene di Wiebke Lehmkuhl e strepitose le caratterizzazioni di tutti i Cantori, dal primo all'ultimo, così come degli apprendisti e degli abitanti di Norimberga.
Un discorso a parte, però, lo merita Johannes Martin Kränzle, Beckmesser dalla vis comica straordinaria che mai, mai sfiora la macchietta. Anzi, il timido Hermann Levi, impacciato in casa Wagner, dove sarebbe ansioso di studiare partiture ed è coinvolto in mille convenevoli che sembrano fatti apposta per imbarazzarlo ci fa sentire subito dalla sua parte. È vero, è pedante, è vero, è mediocre e non si fa nulla per trasformarlo nell'eroe che in quest'opera di certo non può essere: tuttavia anche quando si ride dei suoi fallimenti lo si fa con amarezza, perché c'è chi dei suoi difetti si è approfittato per metterlo alla berlina, perché il grottesco esito nella contesa poetica viene dopo la spietata beffa notturna. Beckmesser è come Falstaff, la notte di San Giovanni come la Quercia di Herne, l'inganno della poesia di Sachs come l'invito di Alice Ford, ma alla fine non c'è nessuna rivincita, solo lo scorno crudele. Le comari di Windsor celiavano, anche se con una buona dose di cinismo; gli abitanti di Norimberga irridono ed emarginano. Kränzle, con un'azione da consumato attore di prosa e un canto sempre duttile e ben a fuoco sulla parola, non è men che superlativo.
Fra cotanto senno, cosa si potrà dire di Philippe Jordan sul podio? Bene, anzi benissimo: nessuna retorica, concertazione serrata, perfetto equilibrio fra leggerezza e tensione. Con l'apporto dell'orchestra e del coro del Festival – vale a dire, nei pressi del non plus ultra wagneriano - serve con Kosky dei Meistersinger avvincenti, scorrevoli, ma che lasciano e il segno e fanno pensare.
Uno spettacolo, semplicemente, imperdibile.