Una e trina
di Giuseppe Guggino
Inaugurazione della stagione sinfonica del Teatro Massimo di Palermo all’insegna del belcanto con Mariella Devia che riporta l’ennesimo successo personale. Purtroppo il contesto radunato dal Teatro non si rivela degno della prestigiosa presenza, poco o nulla sostenuta nei tre finali di Anna Bolena, Maria Stuarda e Roberto Devereux.
Palermo, 3 febbraio 2016 - A oltre quarant’anni dal debutto assoluto in un concorso di canto tenuto proprio al Teatro Massimo di Palermo prima della lunga chiusura del 1974 e dopo avervi cantato praticamente tutti i suoi cavalli di battaglia (con la sola esclusione dell’Elvira de I puritani) a partire dall’esordio operistico con Il Cordovano di Petrassi, passando da Gilda a Violetta, dalla Konstanze e dalla Contessa mozartiane, a Lucia di Lammermoor (in ben tre edizioni diverse) e a Giulietta e Amina belliniane, Mariella Devia torna a Palermo per inaugurare la stagione sinfonica del Massimo con i tre finali delle opere “Tudor” di Gaetano Donizetti. Un rapporto privilegiato, quindi, quello con il Massimo che, dopo aver ospitato otto anni fa anche una memorabile edizione di Anna Bolena con protagonista il soprano ligure (e la regia di Graham Vick), riesce a coinvolgerla in questo polittico di regine, nonostante la parsimonia con la quale oggi si concede ai pubblici e nonostante l’onerosità di tre finali da inanellare in rapida sequenza. Impresa che non intimorisce affatto colei che, grazie ad un mostruoso lavoro di studio, riesce a farsi trina per una serata, con gli esiti che chiunque l’abbia ascoltata anche nel recente passato può facilmente prevedere. In ogni sillaba, in ogni nota si percepisce l’abnegazione della pianificazione del dettaglio in un canto come sempre sorvegliatissimo, dal legato accurato, dall’emissione con segni di umanità nell’iniziale Anna Bolena, dai fiati ancora sorprendenti nella preghiera da Maria Stuarda fino al più trascinante finale dal Roberto Devereux. In questo crescendo nel corso della serata gli applausi procedono di pari passo fino alle ovazioni finali, tributate nonostante tutto il resto che – va detto – non si dimostra all’altezza della situazione.
Il Teatro prova a fare le cose in grande, ideando un concerto in forma semiscenica (a cura di Alberto Cavallotti) con l’Orchestra in buca e il Coro in abiti da concerto sul palcoscenico, ma appena entrato lo spettatore squaderna il flyer di sala e ha la prima percezione di trascuratezza nel vedere la stampa sgranata di tutte immagini presenti.
Bello è l’abito con tre mantelli diversi, uno per ogni regina, disegnati da quel signore della moda con la “s” maiuscola che è Emanuel Ungaro; peccato che il disegno luci (o – più propriamente – il disegno ombre) non consenta di apprezzarne compiutamente la splendida fattura. Troppo deboli si rivelano anche i pertichini affidati a Damiana Li Vecchi, Nunzio Gallì, Italo Proferisce e Antonio Barbagallo, e non è il caso di scendere nei dettagli.
La netta percezione è che, a fronte di un’impegnativa inaugurazione della stagione d’opera peraltro molto ben riuscita, questo concerto sia rimasto stritolato fra poche prove (praticamente un solo insieme ad abiti di Ungaro ancora in progress) e un impegno delle masse del Teatro preso evidentemente sottogamba. Rispetto alla Götterdämmerung il Coro maschile e, ancor di più, l’Orchestra sembrano semplicemente irriconoscibili. Non si vuole infierire infine sulla bacchetta di Francesco Lanzillotta che sarà anche tecnicamente valido (a patto di legargli l’avambraccio sinistro dietro la schiena) ma che opta per tempi francamente incomprensibili né riesce a centrare l’obiettivo minimo per questo tipo di musica, ossia nel saper respirare assieme a colei canta; vieppiù che le remore devono ripetersi anche per le sinfonie delle tre opere eseguite sempre più maldestramente dalla prima all’ultima.
Sicché a fine serata, nonostante gli applausi copiosi di una sala gremita, i fiori piovuti dal loggione e quant’altro, si cava quasi la certezza di aver consegnato per sciatteria all’albo dei concerti ben riusciti uno spettacolo che poteva benissimo entrare nell’albo dei concerti storici del Teatro. Peccato: Mariella Devia che per una sera s’è fatta in tre l’avrebbe meritato.
foto Rosellina Garbo