L’amor di patria
di Stefano Ceccarelli
Il giovane Jakub Hrůša fa il suo esordio all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con un suo cavallo di battaglia (e perché l’ha già registrato e perché è nato nella Repubblica Ceca): il polittico di poemi sinfonici Ma Vlast (La mia patria), composto da Bedřich Smetana – gloria della musica ceca – sul finire degli anni ’70 dell’800. L’esecuzione è appassionata, non perfetta, ma apprezzabile per l’anima tutta boema che il direttore ha saputo profondervi, epica più del consueto, meritandosi gli applausi del pubblico.
ROMA, 18 novembre 2016 – «Sais-tu bien ce que c'est que d'aimer sa patrie?» diceva, perentoriamente, Guillaume Tell ad Arnold nel II atto (quello scritto da Dio – a stare alle parole di Donizetti) dell'ultima, immensa, fatica di Gioachino Rossini. Be', Bedřich Smetana saprebbe certamente come rispondere: anzi, la sua risposta furono proprio i poemi sinfonici composti in un quinquennio (1874-1879) e poi raccolti nel ciclo Ma Vlast (La mia patria), un autentico tributo d’amore per la sua Boemia, ricordata in una dimensione medioevale e fantastica, quella delle più antiche radici nazionali. Il direttore Jakub Hrůša sente – da ceco qual è – con particolare trasporto quella che è, per lui, musica nazionale. Vengono in mente le sagge parole che più di una volta ho ascoltato da Riccardo Muti: solo un italiano sente veramente nelle vene la musica italiana e lo stesso vale per un ceco con la patria musica. L’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia percepisce quanto per il maestro concertante sia importante, sacra, la musica che suona: dà, perciò, una notevole resa plastica alla complessa architettura sonora del Ma Vlast, assecondando una lettura epica che travalica in emotività (talvolta) le magistrali esecuzioni di Karajan e Kubelik. L’emozione dell’esordio cagiona a Hrůša qualche mancanza di vis, qualche calo agogico qua e là – non tutto è straordinario, insomma – ma la tenuta complessiva dell’esecuzione è notevole, improntata su una dizione chiara della melodia e sull’indugiare (alle volte, appunto, eccessivamente) in una retorica della musica che privilegi l’abbandono estatico e patriottico, epico.
L’elaborata concezione di Višehrad ne rende difficile un’esecuzione in tutti i punti accattivante: Hrůša, infatti, esprime una buona agogica, ma la forza di taluni passaggi non è adeguatamente sottolineata, soprattutto dei punti di giuntura del grande affresco narrativo del bardo narrante l’ascesa e la caduta della mitica rocca boema. Hrůša non può che galvanizzarsi nell’esecuzione del celeberrimo Vtlava: i legni zampillano dolcemente all’evocazione sonora della Moldava che si incarna, a livello sonoro, nelle dolcezze del famoso tema principale (un vero e proprio archetipo sonoro della cultura occidentale, così tante volte riutilizzato fin dal XVI sec), indi tutta l’orchestra si lancia nell’esecuzione della danza delle ninfe e delle contadinesche feste dopo la caccia, che continuano a mischiarsi a momenti di raffinatissima, acquatica screziatura sonora, fino a che il celebre tema ritorna evocando l’entrata di Moldava nella città di Praga. Certo, forse Hrůša non ha raggiunto i livelli di un Karajan, nelle morbidezze come nell’intimo lirismo, preferendo a tratti una più virile espressione patriottica, eppure l’esecuzione è sommamente emozionante. La commozione sul suo volto era eloquente del trasporto intimo e sentito. Di Šárka il ceco fa bene soprattutto l’energico finale (la furia delle amazzoni che fanno scempio di un esercito addormentato). Del poema sinfonico Dai prati e dai boschi di Boemia è difficile rendere quel lieve lamento elegiaco che fa da controcanto alla classica esaltazione e idealizzazione della campagna: Hrůša potrebbe sottolinearne di più questo aspetto e esaltare la brillantezza di alcune sezioni, ma agogicamente il tutto funziona a meraviglia. Tábor e Blanik concludono gloriosamente il polittico boemo con un inno di battaglia per gli hussiti e immaginando che questi dissidenti religiosi risorgano per riportare la Boemia alle antiche glorie. Hrůša conferisce giusta sacralità a Tábor, indefessamente ostinato ma possente; del pari, si slancia in un inizio scattante di Blanik, mitigato dall’intermezzo pastorale, cui segue un finale grandioso e maestoso (il risveglio degli hussiti), in cui il ceco scatena tutta l’orchestra – si veda, per confronto, un’esecuzione più mite come quella di Kubelik. Un’orchestra, quella dell’Accademia, sempre eccellente. Il pubblico saluta la performance con un applauso gentile che attesta la buona riuscita del debutto del ceco nella maggiore istituzione musicale italiana.