Winterreise: il ruscello ghiacciato
di Roberta Pedrotti
Nel secondo concerto della Schubertiade bolognese con Ian Bostridge e Julius Drake, la Winterreise chiude idealmente il discorso aperto con Die schöne Müllerin. Una sorta di spirale di ossessioni si delinea inesorabile fra parallelismi e contrasti, vita e morte, stasi e moto.
Leggi anche la recensione della Schöne Müllerin Bostridge/Drake, Bologna 16/11/2016
e al concerto del 20 novembre con musiche di Schubert, Schumann e Britten
Guarda anche l'intervista a Ian Bostridge (con sottotitoli in italiano)
Leggi la recensione del libro di Bostridge, Il Viaggio d'inverno di Schubert
BOLOGNA, 18 novembre 2016 - Non si tratta di una semplice condivisione di topoi, o, almeno, non solo di questo. Ascoltare a brevissima distanza, con i medesimi interpreti, Die schöne Müllerin e Winterreise rende quasi inevitabile instaurare una forte relazione fra i due cicli, una consequenzialità drammatica, psicologica e simbolica. Da un lato la primavera, il moto perpetuo, lo scorrere delle acque, la vegetazione, il nascere e morire di un amore; dall’altro un amore già spento e l’elaborazione impossibile del lutto, il ruscello ghiacciato, immoto, raggelato come tutta la natura, ombre e immagini funebri intorno al cammino solitario attraverso i propri pensieri.
Rispetto alla lettura frastagliatissima proposta in Toscana nemmeno due anni fa [leggi la recensione], pare che Ian Bostridge e Julius Drake puntino ora il riflettore sulla Winterreise da un’angolazione leggermente diversa, che, più delle crepe del ghiaccio, incontra l’atmosfera rarefatta di una fredda desolazione. Sembrano volerci indicare come tutto ciò che era in movimento fra gli ardori e le delusioni del giovane mugnaio ora è immobile, è già morte: nulla scorre, il cammino è senza forza, senza meta, senza scopo e senza vita, fuori dal ciclo della Natura.
Si tratta, naturalmente, di sfumature sottilissime, ma una lettura come questa è proprio nei dettagli più minuti che fa la differenza, anche quando balza all’occhio, e all’orecchio, per scelte estreme e contrasti repentini, per l’intensa fisicità di un suono e di una figura così plastiche e nervose. Sembra quasi che una stessa tensione scuota la fibra sottile di Bostridge e ne formi i lineamenti, vibranti e mutevoli come quella voce quasi astratta, pura manifestazione di un’idea, di una chiave di lettura radicale. L’analisi minuziosa, scientifica di ogni dettaglio del testo – verbale e musicale – e del contesto riesce a condensarsi in una sintesi artistica in cui nulla è lasciato al caso, nulla è scontato, anche a costo di rischiare, di dividere, di distruggere senza pietà ogni convenzione, non solo le pigre consuetudini lise e rassicuranti, ma anche, alla radice, quella stessa convenzione costruttiva che è base imprescindibile della comunicazione. Alla pars destruens consegue la pars costruens: Bostridge plasma un linguaggio canoro alieno, modellato sui suoi mezzi, sulla sua personalità, sulla sua interpretazione. E tanto forte è l’intelligenza dell’artista che l’operazione non risulta traumatica, anzi, seducente, il suo vocabolario poetico immediatamente intelligibile, coerente fino in fondo senza che questa estrema coerenza si tramuti in sfacciataggine.
Quando si sporge sull’orlo del piccolo palco nella Biblioteca di S. Domenico, Bostridge fissa negli occhi tutto il pubblico, direttamente, e il suo è lo sguardo del Wanderer, il lampo aguzzo e azzurrissimo dell’ossessione che, sotto ciocche chiare sempre più scarmigliate, su un volto sempre più stravolto e interlocutorio, si specchia e cerca comprensione in noi.
Non meno aguzza è l’articolazione della parola, intonata come un concreto oggetto fonetico che fende la nebbia densa e gelida in cui si aggira il Wanderer. Il suo viaggio tutto interiore intorno all’idea di morte, immerso in una natura sospesa sulla quale si muove solo l’ombra saprofaga del corvo, è il disperato, folle rispecchiamento dell’incessante moto su se stessa della ruota del mulino, salutata con tanto entusiasmo dal giovane Mugnaio. Drake, all’occorrenza, fornisce sonorità uggiose nelle quali pare di sprofondare, e con Bostridge sfrutta, calibra, soppesa il contrasto fra il prologo della Schöne Müllerin e l’epilogo della Winterreise per ammanire tutta l’angoscia di un’anima che si dibatte sprofondando nel nulla, e più si dibatte più voluttuosamente sprofonda.
Alla fine, di fronte al vecchio suonatore d’organetto, con le sue semplici melodie sconquassate dal tempo e dalla miseria, sembra chiudersi il cerchio delle brillanti strofe popolari con cui il giovane Mugnaio cantava la sua gioia di vivere e il suo amore. Il principio e il spettro si guardano in faccia, la ruota gira, spietata, l’applauso potente non scioglie il turbamento.