L'angelo nel fumo
di Andrea R. G. Pedrotti
Torna Rigoletto al Filarmonico di Verona nell'allestimento di Arnaud Bernard, scelta non entusiasmante dal punto di vista artistico, ma ben comprensibile sotto il profilo economico nel momento difficile che sta fronteggiando la Fondazione Arena. Nel cast diretto da Fabrizio Maria Carminati, in crescendo il protagonista Leo An e di classe superiore la Gilda di Mihaela Marcu.
Leggi la recensione della recita con Federico Longhi, Raffaele Abete e Mihaela Marcu
VERONA, 13 marzo 2016 - Torna il grande repertorio italiano al Filarmonico di Verona con Rigoletto di Giuseppe Verdi e una produzione in crescendo nel corso del pomeriggio scaligero. Nel momento di crisi che imperversa sulla Fondazione, ci si è affidati a una regia di proprietà dell'Arena, scevra, quindi, di costi aggiuntivi. Proprio la regia è stata l'anello debole, se non debolissimo, dell'intera produzione. L'idea di Arnaud Bernard insiste, nel corso del primo atto, su delle tinte scure, con l'intenzione di accentuare il dramma che si va a rappresentare. Il palazzo ducale - una sorta di torretta, o l'interno di una cupola oblunga - un semplice tavolo centrale e alcune scale, abbassate dai camminamenti laterali, sono gli elementi registici. Nel complesso di una scarsa caratterizzazione generale dei personaggi, non si riesce a capire l'utilità dell'ingresso d'un nerboruto uomo di colore, a far mostra dei propri muscoli, numerosi rumori di scena, grida e risate decisamente eccessive. Non si capisce, parimenti, la motivazione dello stupro di una comparsa da parte del duca, e di un approccio alla contessa di Ceprano che poco spazio lasciava alla seduzione, sostituita da un raptus tentacolare da parte del duca. Ci sembra piuttosto inverosimile che il duca si possa limitare a “saltar addosso” a qualsiasi pulzella gli capiti attorno. Il fine è sicuramente fisico, se non addirittura fisiologico, e ben poco nobile, ma il gusto per la conquista dell'altro sesso dovrebbe essere più mentale, come si può notare dal rapporto con Gilda. Questo non lo renderebbe meno cinico, anzi.
Per consentire un rapido cambio scena il duetto “Quel vecchio maledivami!” si svolge di fronte al sipario tagliafuoco calato in proscenio.
Nel secondo quadro del primo atto la scena diviene molto più luminosa, con una piccola costruzione rotante al centro (l'abitazione di Rigoletto) nella quale Gilda è costretta dalla morbosità del padre fin dalla fanciullezza. Nel duetto Gilda e Rigoletto si ignorano completamente, con frequenti passaggi in proscenio nella totale solitudine dell'uno o dell'altra. Se l'intenzione fosse quella di palesare il completo disinteresse del gobbo mantovano per i patimenti dell'animo della figlia, non ci è dato saperlo, sicuramente molto del pathos della situazione è venuto meno. Discorso simile nella continuazione dell'atto con Gilda costretta a cantare “Caro nome” rotolandosi a terra, ma, quel che è peggio, a concludere l'aria circondata dal semicerchio della torretta, con il viso (quindi anche la proiezione del suono) rivolti verso il fondo della scena. Poca interazione con il duca anche nel duetto immediatamente precedente. Chiusa d'atto senza spunti registici di rilievo, se non il rumoroso scagliare a terra di una scala a pioli da parte del gobbo.
Il secondo atto risulta il migliore - parliamo sempre della regia - con un plastico dei principali monumenti mantovani nelle stanze del duca, compreso quello della casa di Rigoletto, che viene mostrato al libertino signorotto lombardo. Da “Tutte le feste al tempio” sino al termine, la scena funge bene da gabbia acustica, mentre il disinteresse del gobbo diviene violenza fisica, forse eccessiva a dimostrare quanto le teorie di Lombroso trovassero espressione in un melodramma che ha come protagonista eponimo un essere tanto ripugnante nell'aspetto quanto nell'animo.
Tornano i problemi registici nel terzo atto, a causa di un fumo eccessivo a simulare le nebbie della val padana attorno a un'imbarcazione che ospita la locanda di Sparafucile e Maddalena. Quest'ultima è resa fin troppo volgare e sopra le righe dal regista, che, per esempio, la invita a sputare addosso al fratello in più occasioni. Il vapore crea qualche piccolo problema nell'omogeneità musicale del terzetto “Somiglia un Apollo quel giovine”, rendendo più difficoltoso il rapporto con il direttore da parte dei soli. Stupisce udire ancora nel 2016 dal duca la frase “Una stanza e del vino”, in luogo della corretta “Tua sorella e del vino”. Stupisce anche considerando, come si è detto, che nel primo atto si era assistito a uno stupro a vista.
Tradizionale e senza spunti il finale, su un pontile del Mincio.
Non indimenticabile il duca di Mantova di Alessandro Scotto Di Luzio, che evidenzia in più occasioni palesi mende tecniche e interpretative. La prima frase, “Della mia bella incognita borghese”, è sicuramente impostata, ma più con tecnica da attore, piuttosto che cantante lirico. I problemi più evidenti sono nel duetto con Gilda “È il sol dell'anima, la vita è amore” - durante il quale rischia più volte di mettere in difficoltà la collega, senza, per fortuna, riuscirvi - e nella splendida cabaletta “Possente amor mi chiama”. Gli attacchi sono sovente in ritardo e il tenore pare seguire molto poco il gesto del direttore. Lo squillo è carente e la recitazione insufficiente, al pari del fraseggio, mentre i fiati sono mal gestiti.
Buona, al contrario la prova del baritono Leo An, come Rigoletto. La sua è una recita in crescendo e se, all'inizio, soffre la scarsa caratterizzazione registica che rende poco incisiva la sua interpretazione, si riprende con un'esecuzione vibrante di “Cortigiani, vil razza dannata” e una buona interpretazione della celeberrima stretta “Sì, vendetta, tremenda vendetta”.
Merita un discorso a parte la Gilda di Mihaela Marcu. Il soprano rumeno porta in dote la delusione di non poterla ascoltare sovente sui massimi palcoscenici internazionali. È un'amarezza, perché la Marcu si dimostra, ancora una volta, artista di categoria superiore, che nulla avrebbe da temere dal confronto con colleghe più titolate, anzi forse il timore dovrebbe essere contrario. La tecnica, che già partiva da una preparazione notevole, si è affinata ulteriormente nell'ultimo periodo. Nel primo atto la precisione esecutiva è encomiabile ed è sicuramente l'interprete che maggiormente si erge per musicalità. Mantiene notevole sangue freddo nel duetto con il tenore, senza mai perdere il fiato, nonostante i gravi errori del collega. Anche quando Gilda viene chiusa nella torretta la voce corre perfettamente in sala. Belle le variazioni, con agilità sicure e filati memorabili. L'artista romena, unisce alla bellezza del timbro una notevole omogeneità nei tre registri, grazie a un'emissione mai forzata. Se è mancata, da parte del regista, una caratterizzazione generale dei personaggi, la straordinarietà interpretativa dell'artista di Timişoara, conferisce profondità al personaggio, evidenziando con eleganza la semplice complessità che compone l'animo della giovane mantovana. Ella è compressa fra le componenti dell'essere umano: l'oppressione ossessiva del padre, che la porterà di fatto al suicidio, la dolcezza del sentire di una ragazza e il tormento interiore, che si fa nobiltà nel compiere l'estremo sacrificio per il fedifrago che tanto amava. Tre punti precisi della produzione valevano soli il prezzo del biglietto e sono stati tutti a opera della Marcu: un Mib fra i migliori possibili, per precisione, potenza, facilità e tenuta e una lettura eccezionale di “Tutte le feste al tempio”, tuttavia è inarrivabile il suo modo di porgere la frase “V'ho ingannato… colpevole fui...”, nella quale riesce a condensare tutto il sentimento del personaggio che, per mancanza di spazio, abbiamo potuto descrivere solo parzialmente poco sopra. Possiamo, dunque, dirci fortunati ad aver assistito al debutto di un'artista completa e di livello difficilmente eguagliabile.
Apprezzabile anche lo Sparafucile di Gianluca Breda, che si disimpegna con onore nella parte. Clarissa Leonardi (Maddalena), è una buona musicista, ma la voce necessita ancora di maturazione, anche se, in relazione alla giovane età del mezzosoprano, crediamo che vi siano buone prospettive future. Bene anche i bravi Alice Marini (Giovanna) e Alessio Verna (Il Conte di Monterone). Completavano il cast Tommaso Barea (Marullo), Antonello Ceron (Borsa), Romano Dal Zovo (Il Conte di Ceprano), Dario Giorgelè (Usciere di Corte) e un'incerta Francesca Micarelli (Contessa di Ceprano e Paggio).
Sul podio il m° Fabrizio Maria Carminati offre una concertazione ben sviluppata nelle dinamiche e nella scelta dei colori. Il direttore bergamasco è bravo a fa suonar bene l'orchestra, grazie alla grande esperienza che lo caratterizza. Particolarmente intenso il preludio e i passaggi che richiedevano maggior fraseggio musicale. Apprezzabile l'impeto ordinato del finale dell'opera, appropriato alla drammaticità della maledizione evocata da Rigoletto. Non tutte le puntature di tradizione vengono eseguite, ma viene saggiamente preservato il Mib di Gilda, considerata la presenza di un'artista della levatura di Mihaela Marcu.
Discorso simile per il coro, che si distingue per una prestazione di gran spessore, ben diretto dal m° Vito Lombardi.
I costumi, tradizionali, senza originalità (coordinati dallo stesso Arnaud Bernard), tendevano tutti a una tinta scura, eccezion fatta per quello di Gilda, prima di indossare la “veste virile” che uniformerà il colore a quello dei colleghi. Vistoso copricapo da giullare per Rigoletto e abito da zingarella per Maddalena. Le scene, ampiamente descritte, erano di Alessandro Camera.
Dopo una prima in crescendo, riteniamo che il livello esecutivo non possa che affinarsi ulteriormente nelle prossime tre recite.
foto Ennevi