Fra i mortali ancora oppressa
di Francesco Bertini
Resa musicale alterna per la Luisa Miller al Verdi di Trieste, funestata da alcune defezioni e impreviste variazioni di cast. Nonostante le ottime intenzioni, conferma alcuni limiti e appare invecchiato l'allestimento firmato a Parma nel 2007 da Denis Krief.
TRIESTE, 6 marzo 2016 - Poco prima della “trilogia popolare” la carriera verdiana stava via via abbandonando i soggetti risorgimentali per dedicarsi, con crescente interesse, ai drammi borghesi, con particolare attenzione ai rapporti familiari. La ricerca di un testo adatto ad essere messo in musica impegnò Cammarano e Verdi durante tutto il 1849, mentre il San Carlo reclamava il rispetto di un contratto stipulato tempo prima. L’interesse dell’autore per tematiche quali la precarietà dettata dai regimi dispotici, lo scontro generazionale, i dissapori tra le differenti classi sociali e la lotta per il potere, raggiunto a costo di intrighi e sopraffazioni, spinse il librettista a proporre la tragedia Kabale und Liebe (Intrigo e amore), scritta nel 1784 da Friedrich Schiller, dalla quale prese le mosse Luisa Miller. Il compositore si adoperò affinché il poeta fosse il più fedele possibile al testo originale per evidenziarne tutta la forza narrativa, valorizzata dalla rapidità dell’azione. Dalla buona accoglienza iniziale si è passati ad un progressivo disinteresse per la partitura, schiacciata dalle più celebri composizioni seguenti. A torto quest’atteggiamento ha attecchito su specialisti e pubblico, per parecchio tempo, riportando in auge il lavoro solo nei decenni recenti. A Trieste è ben evidente la curva discendente riguardo le esecuzioni storiche: l’attuale Verdi, precedentemente Grande e Comunale, ha ospitato l’opera nel 1850, 1851, 1853, 1855, 1856 e 1870, poi, con un salto di quasi un secolo, si è passati al 1965, poi al 1978 e infine al 1990. Al profondo interesse iniziale, a ridosso delle due collaborazioni dirette del compositore con la città giuliana (Il corsaro e Stiffelio), ha fatto seguito un periodo di silenzio in attesa della “riscoperta”, negli anni del secondo dopoguerra.
L’attuale ripresa riporta in auge uno spettacolo prossimo al decennio di vita: concepito per il Regio di Parma nel 2007, quindi portato al Regio di Torino nel 2010, l’allestimento, firmato interamente da Denis Krief, mostra, ora più che mai, i segni del tempo. I dubbi notati all’epoca sono confermati da una svogliatezza alla quale soggiace l’intera messinscena. Fin dall’apertura del sipario lo spettatore osserva scelte registiche al limite del grottesco, specie nei movimenti riservati al coro, con una superficiale e rigida caratterizzazione dei personaggi. Grazie a pannelli scorrevoli ed elementi dalla geometria incombente, vengono abilmente ideati i rapidi cambi di scena che mostrano l’attaccamento alla terra del mondo popolano contro il cinismo sterile dell’ambientazione nobiliare, evidenziando l’impossibilità di un punto d’incontro tra le due categorie sociali. Intervengono le luci dove le scenografie, da sole, rischiano di fra perdere rilievo ad alcuni risvolti della vicenda. Krief ricerca una ciclicità nella narrazione attraverso piccoli dettagli indispensabili, nella sua lettura, a condurre il pubblico attraverso leitmotiv ricorrenti. Ma fallisce, almeno in parte, l’intenzione di far comprendere la modernità del messaggio veicolato da Verdi e Cammarano. I costumi non aggiungono alcunché allo spettacolo.
Anche la resa musicale annaspa qui e là. La concertazione di Myron Michilidis è solida, salvo soverchiare a tratti gli artisti, ma non si perita troppo di fraseggiare e regalare colori. L’uniformità della direzione porta a compimento la serata, senza particolari sussulti, trovando riscontro valido nella prova corretta dell’Orchestra del Verdi di Trieste. Al contrario il Coro, istruito da Fulvio Fogliazza, manifesta disomogeneità e vaghezza d’intonazione, specie nel comparto femminile.
Saioa Hernández, di recente udita nella Norma padovana, viene a capo del ruolo protagonistico conoscendo i propri limiti e interagendo intelligentemente con la scrittura verdiana. La pasta vocale brunita si abbina a un sapido controllo espressivo. Certo il canto non è indenne da alcune tensioni in acuto e appare a tratti appannato, al cospetto degli impervi passaggi d’agilità, ma la prestazione coglie gli aspetti precipui della psicologia muliebre di Luisa.
Dopo il debutto triestino nel Werther, torna per affrontare il ruolo di Federica Olesya Petrova che conferma le impressioni positive evidenziate da musicalità e valida presenza scenica.
Gustavo Porta, costretto ad abbandonare la produzione dopo la prima recita, è sostituito da Luciano Ganci, reduce dalle recentissime recite di Norma a Napoli. L’arrivo improvviso, proprio per la replica del 6 marzo, non gli ha consentito di riappropriarsi pienamente di Rodolfo. Come già notato il timbro è di prim’ordine, tuttavia l’emissione stentorea, con forzature e disomogeneità nella gamma, rischia di inaridire la resa musicale complessiva. La disinvoltura attoriale viene in soccorso al tenore che si rapporta convincentemente con i colleghi.
Altra sostituzione riguarda Miller. Filippo Polinelli, titolare della parte nel cast alternativo, subentra al collega Ilya Silchukov. L’anziano soldato richiede una maturità artistica che il baritono non possiede: ecco dunque alcune titubanze, qualche suono ingolato e il tentativo di irrobustire uno strumento evidentemente adatto ad altre tipologie repertoriali. Nel terzo atto si avverte un crescendo nell’attenzione alle esigenze verdiane, tanto da portare a compimento l’opera con piglio più energico.
Maggiore inadeguatezza è ravvisabile nel Conte di Walter di Andrea Comelli, innaturale in scena e poco credibile a livello vocale. Nonostante la scarsa incisività, si apprezzano impegno e fervore del basso In-Sung Sim, Wurm. Ricordiamo Yumeji Matsufuji, Laura, e Motoharu Takei, Un contadino.
Le pallide reazioni dell’uditorio sono parse lievemente più accese solamente al termine dello spettacolo e all’indirizzo della protagonista.
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