L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

armide di gluck

Se Armide è come le altre

di Francesco Lora

La Staatsoper di Vienna azzarda un nuovo allestimento del capolavoro francese di Gluck. Lo spettacolo soffre tuttavia di un passo falso del regista Alexandre, del mancato ripensamento del direttore Minkowski e dell’assenza di una protagonista col necessario carisma.

VIENNA, 19 e 22 ottobre 2016 – Nelle sue lettere a François-Louis Gand Le Bland du Roullet, librettista della sua Iphigénie en Aulide, Gluck esplicita ciò che la partitura stessa di Armide dimostra: la volontà di non escludere dall’intonazione un solo verso del libretto di Quinault, concepito per Lully e capolavoro inarrivabile della poesia francese; la necessità di mettere a punto una nuova poetica compositiva propria, dopo i primi successi parigini imperniati sul manifesto della riforma del melodramma; la compiaciuta confessione di aver tentato di agire, letteralmente, più da pittore che da musicista nel porre mano al soggetto tassesco (1775-77). Per queste ragioni, e per altre ancora, Armide è a buon diritto la più affascinante tragédie lyrique gluckiana, ispirata come non altra nella strumentazione e con un senso dell’organizzazione formale reso tanto più sbalorditivo dalla conciliazione di uno stile musicale di tardo Settecento con una poesia preesistente – e prescrittiva in numerose strutture dell’arte dei suoni – risalente a quasi un secolo prima.

L’opera non figura stabilmente nel repertorio corrente, e tuttavia non ne è mai stata del tutto estromessa: l’Opéra di Parigi la tenne orgogliosamente in vita nel corso dell’Ottocento, e nel 1910 fu interpretata da Enrico Caruso al Metropolitan di New York. Due aspetti precludono un accesso facile a essa: la sua dotta estrazione, che si rivolge prima alla testa che alla pancia dello spettatore, per insegnargli non lo sfogo ma il dominio degli affetti; e la difficoltà di allestire uno spettacolo assai esigente nella scenografia e nella scenotecnica, con una ventina di dramatis personae spesso caricate di ruoli rilevanti, e con un discorso musicale e teatrale da condurre con analisi profonda ed estrema motivazione.

Non è un caso che nei cartelloni internazionali questo titolo, con eccezioni risibili quanto agli esiti, taccia di fatto da due decenni: nel 1992 è stata proposta all’Opéra royal di Versailles con la direzione di Marc Minkowski e la regìa di Pier Luigi Pizzi; quattro anni più tardi, mentre Minkowski la consegnava al disco approfittando di una nuova esecuzione concertistica, Riccardo Muti la sceglieva come titolo inaugurale della stagione della Scala e fissava un precedente interpretativo con effetto di maledizione: mai più chi scrive ha assistito a uno spettacolo di pari onnipotenza nell’erudizione e nella dedizione del concertatore, nel geniale virtuosismo registico, scenografico e costumistico (ancora Pizzi, ma trasfigurato e senza limiti rispetto a Versailles), nonché in una compagnia di canto possibile soltanto nel primo teatro del mondo (tra il varo del 1996 e la ripresa del 1999: protagonista l’Antonacci, contornata da Amsellem, Urmana, Groves, Flórez, Kunde, De Candia e Keenlyside; comprimari i giovanissimi Farnocchia, Kampe, Prina, Filianoti e Concetti; e così via).

Si strabuzzano dunque gli occhi per la sorpresa, e ci si prepara legittimamente al gesto forte di un teatro di rango, di fronte all’annuncio di un nuovo allestimento: Staatsoper di Vienna, cinque recite dal 16 al 29 ottobre scorsi. Ma si tratta di uno spettacolo che, calato il sipario, lascia alla memoria anzitutto l’errore: aver creduto (e aver voluto gabellare) che Armide, con il suo testo sublime e la sua tradizione privilegiata, sia un’opera come le altre.

L’errore risiede senza appello nella visione registica di Ivan Alexandre, affiancato da Pierre-André Weitz per scene e costumi, da Bertrand Killy per il light design e da Jean Renshaw per la coreografia. Eppure Alexandre, esperto conoscitore del teatro barocco francese, sarebbe uno dei più attendibili candidati all’incarico: a farne fede è, per esempio, l’Hyppolite et Aricie da lui concepito nel 2009 per il Théâtre du Capitole di Tolosa, capolavoro di recupero della macchineria scenica settecentesca, e della meraviglia a ciò connessa, con la sollecitudine immaginativa del drammaturgo contemporaneo. Il suo passo falso, nell’Armide viennese, è aver confidato nella sovrapposizione di Tasso, Quinault e Gluck con i correnti crimini dello Stato Islamico, e aver così immolato a una mera suggestione geografica – il Medio Oriente cavalleresco ritratto da Tiepolo come se fosse quello insanguinato dei telegiornali: un’identificazione a malapena passabile nell’atto I e del tutto pretestuosa nei restanti quattro – un’opera che consiste in tutt’altro: uno struggente studio sull’innamoramento, nei poteri e nei timori, fino all’abbandono, all’addio e al ritorno nel mondo. Gli attori sono così lasciati a sé stessi, quasi nel disprezzo di versi memorabili e situazioni prepotenti; la scena fissa è uno squallido gabbione, che nel crollo del palazzo incantato si accende di miserabili focherelli; le coreografie connesse ai cinque lunghi divertissement danzanti paiono uno svelto disbrigo a un impiccio.

Ciò che si vede si configura in tal modo come una fastidiosa antifrasi di ciò che si ascolta, fino a rendere necessario il ritorno del critico a una seconda recita, col proposito di non aprire gli occhi sulla scena e di concentrarsi sul solo discorso musicale. A presiederlo si ritrova, dopo vent’anni, Marc Minkowski; e nella “buca” d’orchestra gli fanno corteggio non i Wiener Philharmoniker, bensì ancora i suoi Musiciens du Louvre armati di strumenti originali. In ciò turba soprattutto la perfetta identità tra due letture, benché distanti quattro lustri l’una dall’altra: pregi e mende sono tutti riconoscibili al loro posto, senza traccia di un approfondimento o di un ripensamento. Rimangono – fin qui: bene – i tempi sveltissimi, le atmosfere più spesso diaboliche e sulfuree che idilliache ed edeniche, i fraseggi incisivi quando non graffianti. Rimangono – da qui: non più – una risonanza strumentale troppo esile per una sala vasta, nonché imbarazzanti insufficienze tecniche negli interventi solistici dei legni. Rimangono soprattutto le vergognose potature – una decina di occorrenze per circa venti minuti di musica – inferti a una partitura equilibrata e intoccabile.

In questo orizzonte, quale consolazione può venire dalla compagnia di canto? Non abbastanza dal soprano Gaëlle Arquez nella parte protagonistica. La figura è avvenente, l’attrice impegnata e la cantante pure, agevolata più dallo smalto vocale che dalla costante resistenza fisica in una parte onerosa. Ma tutto è compitato con dignitosa diligenza, là dove Anna Caterina Antonacci, noncurante di un periodo di crisi vocale, aveva dato una delle sue prove massime di arte retorica, estetizzando la fonetica francese come e meglio di una madrelingua, e variando millimetricamente l’eloquio tra impeto e mollezza, sensualità e ironia, declamazione e immedesimazione. Il precedente non si può dimenticare, mentre dell’attuale non rimarrà memoria. Un compito più abbordabile e un confronto più clemente attendono il tenore Stanislas de Barbeyrac come Renaud: a lui il merito di saper reggere con la bontà tecnica, e senza compromettere un timbro relativamente brunito, una tessitura acutissima da haute-contre.

Il resto della compagnia è ad ampio margine di rischio, ossia attinto non tra gli specialisti d’opera francese del Settecento, bensì tra i tuttofare cantanti-utilité della Staatsoper. Per padronanza dello stile, spigliatezza di modi e freschezza di mezzi si distingue la coppia formata da Olga Bezsmertna e Hila Fahima: esse prendono in carico non solo le parti di Phénice e Sidonie, e degli alter ego Lucinde e Mélisse, ma anche quelle della Naiade, della Pastorella e di un Piacere, dispensando i momenti di canto più immacolato. La cosa non si può ripetere a proposito della parte dell’Odio, breve ma di superba appariscenza, affidata a una Stephanie Houtzeel arida nel timbro, scabra nell’emissione e inclinata a gettare in caricatura un personaggio di statura tremenda; dopo le prime due recite, il subentro di Margaret Plummer ristabilisce la giusta misura interpretativa e un canto più dotato e ortodosso. Un pesce fuor d’acqua sembra a sua volta, come Hidraot, il baritono Paolo Rumetz avvezzo a tutt’altro repertorio. L’acutissima tessitura baritonale procura qualche preoccupazione anche a Gabriel Bermúdez come Ubalde, il quale tuttavia sa opporle vigorosa prestanza, mentre al suo fianco il tenore Bror Magnus Tødenes domina con ammirevole sfrontatezza un’altra temibile tessitura da haute-contre.

Foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn


 

 

 
 
 

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