La maga del Re Sole
di Francesco Lora
L’attesissima Médée di Charpentier all’Opernhaus di Zurigo attesta il sempre più dotto approccio di William Christie e Stéphanie d’Oustrac, a fronte di un nuovo e inadeguato allestimento scenico con regìa di Andreas Homoki.
ZURIGO, 28 gennaio 2017 – Bizzarrie della storia dell’opera: intorno al cuore pulsante della Parigi di secondo Seicento, Jean-Baptiste Lully, italiano di nascita ma educato in Francia, instaurava l’opera francese come un bene di Stato, mentre Marc-Antoine Charpentier, francese di nascita ma educato in Italia, predicava gli stilemi della scuola romana e dell’opera italiana. Nel 1693 e sei anni dopo la morte di Lully, nondimeno, Charpentier diede alle scene dell’Académie royale de Musique il suo più impegnato, corposo e appassionato capolavoro, in senso teatrale e forse in assoluto; e si trattò proprio di una tragédie lyrique conforme al modello lulliano: Médée, basata sul mito della maga condannata all’apolidia e figlicida per vendetta, intonata su un degno libretto di Thomas Corneille (fratello di Pierre), come di prassi equamente esapartita in un prologo celebrativo e cinque atti; tipica anche la struttura di questi ultimi, dove la prima parte spetta all’azione e al dialogo dei singoli personaggi, mentre la seconda è un divertissement di arie decorative, cori festosi e pompose danze. Una meraviglia il modello, un vertice la realizzazione.
Già rispolverata negli scorsi anni ’50 con più fiducia archeologica che consapevolezza stilistica, Médée è tornata in repertorio tre decenni più tardi, grazie alla sovrana specializzazione, ai poteri interpretativi e alla spiccata preferenza di William Christie (due incisioni discografiche e una memorabile produzione scenica, in particolare, firmata insieme con l’altrettanto dotto e irraggiungibile regista Jean-Marie Villégier). L’Opernhaus di Zurigo si è oggi ricordata della propria annosa collaborazione con Christie e del capolavoro di Charpentier; ne è uscito un attesissimo nuovo allestimento: otto prime recite dal 22 gennaio al 18 febbraio, nonché una violenta escursione tra due incomparabili picchi d’eccellenza e una scelta al contrario squalificante. I picchi sono quelli, ovvi, di Christie concertatore e di Stéphanie d’Oustrac protagonista: due artisti capofila, che non lasciano passare giorno senza dichiarare in nuovi modi amore alla tragédie lyrique. L’errore è invece quello di affidare la regìa ad Andreas Homoki, affiancato da Hartmut Meyer, Mechthild Seipel, Franck Evin e Katrin Kolo per scene, costumi, luci e coreografie, rispettivamente.
Motivo presto detto: se Médée è per Christie e Oustrac il punto d’arrivo e rilancio di una vita di studio, in Homoki essa sembra un mero passatempo retribuito, una transizione riempitiva, un linguaggio estraneo che non interessa intendere, afferrare e restituire. Per pretesa del regista – mai la si potrebbe credere di Christie – i favolosi venti minuti del Prologo sono falciati via: saltano così le chiavi per comprendere l’allegoria degli atti, le calcolate simmetrie di tempi e fatti, l’avvenenza di un’opera avviata d’ufficio in medias res. Altri tagli offendono qui e là dramma e partitura, nonché la vincolante stabilità testuale dell’opera francese. Talvolta –è vero – si contemplano immagini di singolare bellezza: tale è la grande ruota lignea entro la quale avanzano, srotolandosi fuori uno dopo l’altro lungo il divertissement dell’atto IV, gli spettri abbigliati in settecentesche robes à la française. Ma il principale codice teatrale qui praticato, e che nella Médée è tout court privo di cittadinanza, rimane quello del grottesco: e il pubblico che ridacchia attesta l’imperita liquidazione di un testo al contrario altamente esemplare, trascinante ed educativo.
Tutt’altro possesso vanta Christie, sia come puntiglioso preparatore della compagnia di canto, sia come direttore posto in capo alle compagini dell’Opernhaus. L’orchestra La Scintilla imbraccia strumenti originali e, per inusitata abbondanza di elementi e contenuto spazio del teatro zurighese, vanta eccezionali scala dinamica e rigoglio timbrico. Una ferrata sezione di hautes-contre, prestata dagli Arts florissants (il gruppo storico di Christie), infiltra a sua volta il coro residente e lo assiste, per esempio quando l’energica articolazione delle hemiolæ (i caratteristici sbilanciamenti ritmici che dividono de facto due battute in tempo ternario in tre battute in tempo binario) rischi di mandare alla deriva un gruppo avvezzo più a Verdi, Wagner e Puccini che al Barocco del Re Sole. Al culmine dell’esperienza maturata e delle facoltà esegetiche, del resto, nella Médée Christie pretende e ottiene come mai prima, calcolando al millimetro il giusto porgere nei recitativi, acquerellando le grazioserie delle arie decorative, spargendo zolfo timbrico quando Medea evoca gli inferi ed erigendo nuova grandeur allo scoppio o alla sentenza dei cori.
Non si potrebbe dare una sua più profonda intesa artistica con Oustrac, unica nella compagnia di canto a conoscere già a fondo la Médée e la parte propria. Di lei sono già note la pasta mediosopranile, la disinvoltura scenica, la capacità di conciliare enfasi declamatoria e immedesimazione realistica, nonché l’incisività nel porre in seno al canto la poesia francese: mentre il ritmo musicale procede inesorabile, senza concedere le libertà agogiche dell’opera italiana, ella sempre sa dove e come rubare tempo per inflessioni brucianti. Un ulteriore aspetto sancisce qui il suo magistero nel gesto della tragédie lyrique: la preferenza data ai toni sommessi ma taglienti anziché al grido plateale cui indulgeva persino la sublime maestra Lorraine Hunt; ella schiude così una più forbita primavera retorica, da seguire in lei stessa e in chi la sappia imitare. In tale direzione si pongono Reinoud van Mechelen, Jason di timbro radioso e sciolta modulazione, e Mélissa Petit, Créuse delicata, fremente, luminosa. Attenti gli altri: Nahuel Di Pierro (Créon), Ivan Thirion (Oronte), Carmen Seibel (Nérine), Spencer Lang (Arcas) e Gemma Ni Bhriain (Cléone).
T+T Fotografie / Toni Suter + Tanja Dorendorf