Luci sul tramonto
di Pietro Gandetto
Perfetta sintonia fra Damiano Michieletto, regista, e Zubin Mehta, concertatore, per uno splendido Falstaff, perfetto esempio del rinnovamento del teatro lirico che, in realtà, tutti stavamo aspettando. Note positive anche dall'affiatato cast capitanato da un Ambrogio Maestri ormai identificatosi con l'ultimo grande protagonista verdiano.
MILANO, 2 febbraio 2017 - “L’assenza di compassione può essere di cattivo gusto tanto quanto un eccesso di lacrime”. Così afferma l’anglosassone Lady Violet, contessa di Grantham, protagonista della nota serie Dowton Abbey. E sono proprio quest’inglesissima compassione e quest’arguta ironia britannica a dominare il Falstaff di Damiano Michieletto, concepito a Salisburgo nel 2013 ed esportato al Piermarini come terzo titolo della stagione.
Il regista veneziano ambienta l’opera ai giorni nostri, nella Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi di Milano, voluta, finanziata e amata dal compositore. In realtà questa diventa un luogo/non-luogo da cui partire per far raccontare a Falstaff la sua storia. Tutto inizia con la proiezione di immagini interne ed esterne di Casa Verdi. Le auto e le biciclette di Piazza Buonarroti sfrecciano in primo piano contrapponendosi ai silenziosi cortili interni. Il sipario si solleva dopo che un’anziana “ospite” accenna al piano arie verdiane e così compaiono i membri della “casa” intenti nelle loro attività quotidiane: c’è chi gioca a carte, chi legge il giornale, chi discorre.
L’anziano baritono si addormenta sul divano come facciamo tutti nelle giornate di pioggia, e inizia a sognare, ripercorrendo le tappe fondamentali della propria carriera. Dalle finestre laterali e dal pavimento entrano quindi i protagonisti come immagini che riaffiorano nella sua mente. E così l’opera si sviluppa tra sogno e veglia.
La malinconia per quello che non è più, la compassione di non poter più vivere ciò che si vorrebbe e la paura per l’imminente avvicinarsi della fine. Sono questi i macrotemi su cui si snoda la regia di Michieletto. Ma non si deve pensare a uno struggente elogio della senilità, quanto piuttosto a un brillante affresco sull’umanità, che viene vista con gli occhi di chi giovane non è più, guardando le cose dall’alto senza macigni sul cuore.
Il merito di Michieletto è quello di aver saputo distinguere lucidamente l’ironia, intesa come superiore distacco dalle cose, e la comicità, intesa come tentativo di suscitare il riso a tutti i costi. Falstaff seduce le giovani infermiere roteando una fragola. Nannetta e Fenton cantano mentre due anziani innamorati fanno volare una farfalla posata su una poltrona. "Va', vecchio John" viene cantato con il ritratto di Verdi in mano, come si racconterebbe una storia a un amico.
La scena fissa è di Paolo Fantin, che sostituisce l’osteria della Giarrettiera con una sezione di un salone liberty di Casa Verdi. A sinistra due ampie finestre. Un lampadario a braccia e arredi inizi 900. Un pianoforte, un giradischi e alcuni attrezzi, come sedie a rotelle, stampelle e girelli, che gli ospiti di casa Verdi utilizzano nel loro soggiorno.
Un Falstaff crepuscolare è anche quello che sgorga dalla bacchetta di Mehta, il quale dà pieno risalto a una partitura che aveva solo bisogno di essere eseguita con quella vena malinconica che la contraddistingue. In effetti, Falstaff è l’addio malinconico di un musicista ottantenne che voleva esprimere un mondo nuovo, lontano dai cromatismi wagneriani, lontano dalla tonalità che si stava disgregando, ma ciò nonostante in pace col mondo come denotano quelle armonie così solari, chiare e luminose. Quale lettura migliore di questa? Una lettura senza eccessi, ma mai rinunciataria, in perfetta sintonia con la regia.
In questo perfetto congegno musicale, la compagine vocale è omogenea. Le “comarelle”, come le chiamava Verdi, sono davvero indiavolate. L’Alice di Carmen Giannattasio non perde mai il suo stile ed è splendida per arguzia e civetteria scenica. Nei concertati la voce è brillante e gli slanci all’acuto sono come sempre sicuri. La Quickly di Yvonne Naef ha tutto quello che si richiede alla comare più anziana. Quel “Reverenza” ha da solo il peso di un’intera scena, e la vocalità è scura ma mai offuscata, bensì sorretta da una maturità attoriale di livello. Nel gruppo brilla poi la delicatezza di Nannetta, qui felicemente resa da Giulia Semenzato (già apprezzata Celia nel Lucio Silla scaligero del 2015, leggi). Una conferma delle proprie qualità ci viene poi da Annalisa Stroppa che, dismessi i panni della fedelissima Suzuki [leggi], si cala con disinvoltura in quelli di una riuscitissima Meg Page.
Al gaio cicaleccio femminile, si affianca la compagine maschile tra cui spicca il Massimo Cavalletti nel ruolo di Ford, il marito ossessionato dalle corna che nella sua fantasia crescono senza controllo. Il personaggio è a fuoco e la vocalità è solida e robusta. L’acido dottor Cajus trova interprete ideale in Carlo Bosi, che dà sfoggio di vocalità brillante e musicalità. Puntuali il Pistola di Gabriele Sagona e il Bardolfo di Francesco Castoro. Francesco Demuro era Fenton.
Ambrogio Maestri fa sentire lo spessore della sua esperienza. Falstaff è l’ultimo grande vecchio verdiano, che beneficia quindi di un affinamento compositivo straordinario. Ridicolo finché si vuole, ma il suo insenilimento desta una tenera compassione. Con le sue duecentocinquanta recite, Ambrigio Maestri ci restituisce un personaggio vero, autentico, commuovente per la capacità di esprimere tutte le debolezze, le golosità, la tenerezza e la malinconia di un vecchio. L’ingente volume vocale è ancora gestito con maestria e con una ricchezza di colori e sfumature timbriche notevoli.
A fine spettacolo, tanti applausi per tutti e qualche timida contestazione di rito per Damiano Michieletto. Ma neanche quelli che urlavano buu ci credevano poi così tanto. Perché quando su quel palcoscenico si vedono le cose belle, le querelle tra il vecchio e il nuovo non ha più ragion d’essere e i buu diventano gli ultimi disperati tentativi di resistere a un cambiamento che in realtà tutti stavamo aspettando.
foto Brescia Amisano