L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

ailyn perez nella traviata

Pura siccome un angelo

  di Pietro Gandetto

Ripresa alla Scala della Traviata del 1990 con la regia di Liliana Cavani. Note positive dalla prima grazie al valido contributo dell’affiatato cast vocale e del direttore Nello Santi.

Milano, 28 febbraio 2017 - Tra le sfide più impegnative del teatro musicale contemporaneo, vi è forse quella di rappresentare titoli così radicati nella storia del melodramma da renderne impegnativa la rappresentazione, ché il rischio di cadere nel dejà vu, nell’ovvio e nel banale è dietro l’angolo.

Appartiene a questo gruppo di opere La traviata che, secondo i dati pubblicati da Operabase, è l'opera più rappresentata al mondo nelle ultime cinque stagioni, con seicentoventinove recite complessive. Si può ben capire quale sia lo sforzo che registi, direttori e cantanti debbano affrontare per proporre qualcosa di interessante.  Fatto sta che la forza e il fascino della storia della mondana Alphonsine Plessis sono ancora tali da riempire teatri e smuovere le masse, come è avvenuto per questo quarto titolo della stagione della Scala, già tutto sold out da tempo. Forse anche perché il cast è composto da super big come Anna Netrebko, che si alterna ad Ailyn Pérez, Francesco Meli e Leo Nucci.

Lo spettacolo riprende lo storico allestimento firmato da Liliana Cavani nel 1990, che riportava alla Scala una nuova Traviata dopo quella di Zeffirelli del 1964, con la contestatissima Mirella Freni (“tornatene in provincia!” fu apostrofata, secondo fonti autorevoli). La regia non è invasiva e supporta il libretto, improntando al realismo i gesti e i movimenti. Si rievoca, in un certo qual modo l'indimenticato spirito viscontiano, forse anche perché nel 1955 insieme a Visconti c’era Maria Callas e tutti, anche gli assenti, la rievocano come se avessero assistito a quelle recite di sessantadue anni fa. Di buono c’è che una volta tanto siamo davvero a Parigi, con la luce della luna che spunta nel primo atto, i palazzi ottocenteschi, le sontuose scene interne di Dante Ferretti e gli eleganti costumi di Gabriella Pescucci.  Di meno buono c’è che Violetta è lasciata un po’ a sé stessa. Non c’è un vero sviluppo psicologico del personaggio, non c’è un approfondimento che vada al di là della giovane che soffre perché vuole essere amata amando. E non c’è una reale trasformazione tra la donna merce e la donna persona, tra la prostituta e l'innamorata, che costituisce la leva drammaturgica di quest’opera.

Nello Santi, assente dalla Scala dalla Butterfly del 1971, viene accolto da ovazioni ricambiate con affettuosi saluti. La cifra stilistica della concertazione si caratterizza per lo stacco di tempi dilatati, che rimandano al senso del ricordo, della rievocazione e di uno struggimento congeniale al terzo atto, ma eccessivo nei primi due. Il Verdi mondano del primo atto, in cui la musica è gioiosa e di una spumeggiante frivolezza, lascia al posto a un Verdi già meditativo e languido, il cui colore orchestrale si fa drammatico dalle prime scene, grazie a un uso di pause, colori e ritmi più da dramma che da gaia commedia. Un tale governo del metronomo ha generato nel primo atto qualche scollamento con il coro e nel secondo ha messo in crisi qualche cantante, ma forse la colpa non sta tutta da una parte sola. L’orchestra della Scala regala invece momenti felicissimi, soprattutto nella sezione degli archi il cui suono zampilla pulito e terso come quello di una fontana.

Ailyn Pérez ha la statura di una cantante navigata, ma centra il personaggio solo a metà. L’interesse di Verdi è tutto sulla protagonista e sulla sua trasformazione da merce a essere umano che ha piena coscienza di sé e del proprio amore. Ancorché psicologicamente rifinita, la Violetta di Ailyn Pérez è già troppo redenta e devota al suo Alfredo fin dall’inizio dell’opera, dove ci si aspetta di contro una donna frivola e spumeggiante. Il contributo del soprano nel secondo e nel terzo atto è invece significativo: stupisce qui il magnetismo da primadonna, capace di appendere l’ascoltatore al fascino della frase mesta e dolente, ma dignitosa, sorretta da uno strumento che funziona a meraviglia. A eccezione di una certa asprezza nei sovracuti, l’emissione è sana e solare, la voce ben appoggiata e il colore adeguatamente modulato a seconda dell’atmosfera, con centri e acuti ampi e generosi.

Francesco Meli conferma ciò che ci si aspetta e cioè una vocalità quasi fastidiosamente bella con centri perfetti, acuti squillanti e nobilissime mezzevoci. "Un dì felice eterea", frase tra le più distorte di tutto Verdi, viene pronunciata con un’eleganza musicale e un limpidezza di suono che fanno dimenticare decenni di interpretazioni forzate e volgari. Il personaggio viene riportato alla sua dimensione più autentica, quella di un ragazzotto che ama la sua Violetta e nulla più. Del resto, l’opera è Violetta, il capolavoro è Violetta. Le altre due figure, quella di Alfredo e quella di Germont quasi non esistono, se non quali satelliti che gravitano intorno alla protagonista.

Tradizionalmente definito come “padre nobile”, in realtà di nobile Germont non ha granché. È un borghese ipocrita che inganna subdolamente Violetta in nome dei propri bigotti pregiudizi. Peccato che non sappiamo chi sia quel cognato moralista da quattro soldi che si rifiuta di sposare la sorella di Alfredo per la relazione “illegale” di quest’ultimo: Verdi non si preoccupa di scavare quest’aspetto perché a lui interessa il contrasto tra la Traviata, che ha lasciato la vita mondana per amore, e Germont, che difende la reputazione della famiglia secondo un ordine precostituito. Conforme a questo paradigma è il duetto Perez-Nucci del primo quadro del secondo atto. Leo Nucci è un Germont autorevolissimo e abile nel ruolo dello pseudo gentiluomo di provincia intento a lanciare cinici sermoni, ammantati di paternalistica saggezza. La musicalità, l’esperienza attoriale, e l’intelligenza scenica di una vita spesa sul palco tratteggiano un validissimo Germont, anche se, a ben vedere, manca il colore del vero baritono verdiano che soprattutto in un personaggio come Germont ci sarebbe piaciuto riscontrare. Per lui, i più calorosi applausi a fine spettacolo.

Nel comprimariato, il Douphol di Costantino Finucci non si è quasi visto. Flora era la disinvolta Chiara Isotton, Annina la puntualissima Chiara Tirotta. Gastone era Oreste Cosimo, il Marchese Abramo Rosalen e Grenvil Alessandro Spina.

Il coro è in prima linea e si destreggia con disinvoltura nelle più note pagine verdiane. Peccato che le coreografie di Micha Van Hoecke siano brutte a detrimento della scena delle zingarelle e dei matadori.

In conclusione, uno spettacolo sobrio, ma appagante e di buona sostanza. Tanti applausi, ovazioni e nessun fischio (ma che prima era?).  Aspettiamo il 9 per l’altra prima con Queen Netrebko.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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