Puccini, l’italiano
di Alberto Ponti
Dopo La Bohème di inizio stagione Noseda trionfa al Regio anche con Manon Lescaut
TORINO, 14 marzo 2017 - ‘Massenet la sentirà da francese, con le ciprie e i minuetti. Io la sentirò all’italiana, con passione disperata’. In queste parole dello stesso Giacomo Puccini, per nulla intimidito da un soggetto già musicato con grande successo dal collega d’oltralpe, risiede il senso di tutta la sua Manon Lescaut, che ebbe la prima rappresentazione assoluta proprio al Teatro Regio di Torino il 1° febbraio 1893. Opera di geniali intuizioni, con un’orchestrazione di molto superiore a tutto quanto prodotto fino a quel momento per il palcoscenico in Italia (a eccezione dell’Otello verdiano, al quale la partitura è più che in un punto debitrice) Manon, a cui lavorarono le mani di tanti, troppi librettisti, da Illica a Marco Praga a Leoncavallo nella veste di autore letterario, è allo stesso tempo fortemente squilibrata nel taglio dei primi due atti, affollati e macchinosi, a contrastare la stringatezza dei due successivi, con la tragedia che corre a precipizio verso il previsto, spietato epilogo.
La lettura che ne dà Gianandrea Noseda, autentico mattatore della recita inaugurale di martedì 14 marzo, consente di cogliere tutti i minimi particolari della preziosa scrittura sinfonica pucciniana, coniugando una chiarezza di gesto esemplare e immediata con l’espressività profonda di un accompagnamento restituito all’ascolto in tutta la sua pulsante originalità, dagli arabeschi cameristici del salotto di Geronte nel secondo atto, alle taglienti staffilate dal sapore quasi espressionista della scena al porto di Le Havre, con la protagonista e Des Grieux in procinto di essere deportati nel Nuovo Mondo. Il maestro milanese dimostra d’altronde di essere perfettamente a suo agio in quel repertorio italiano, non solo lirico, a cavallo tra Otto e Novecento, esplorato con una serie di illuminanti incisioni (Casella, Dallapiccola, Respighi per non citare che alcuni nomi) fin dai tempi della direzione della BBC Philarmonic. La familiarità con un autore come Puccini, inserito al più alto livello nel panorama europeo dell’epoca, si palesa nel celebre Intermezzo, collocato nel punto di svolta dell’opera, vibrante di un autentico senso del dramma in procinto di scoperchiarsi di lì a poco, diretto senza cadere nella trappola dell’accentuazione di un certo sentimentalismo da cartolina a cui non seppe sfuggire nemmeno il sommo Karajan.
L’allestimento del Teatro Regio ha un ulteriore punto di forza nella regia di Vittorio Borrelli, con le scene di Therry Flamand e i costumi di Christian Gasc, un insieme di riuscita coerenza col dettato originario del libretto, in grado di passare dalla ricreazione di un Settecento alla Watteau nelle scene della piazza di Amiens e dell’appartamento di Manon (con le indovinate luci di Andrea Anfossi), alle suggestioni a metà strada tra la Fantasia disneyana e il De Chirico più metafisico nelle colonne quadrate sullo sfondo del porto per concludersi con lo spoglio piano inclinato su cui si consuma l’atto finale degli sfortunati amanti.
Un cast di alto livello sulla carta non raggiunge tuttavia sempre gli esiti sperati, a cominciare dai ruoli principali, ricoperti da Maria José Siri (già Madama Butterfly nell’ultimo Sant’Ambrogio scaligero), protagonista dall’impronta vocale limpida ed elastica ma poco graffiante nel registro basso. Il Des Grieux del tenore statunitense Gregory Kunde palesa invece un timbro più cupo, a tratti in difficoltà soprattutto nelle battute iniziali, con la romanza "Donna non vidi mai" decisamente sottotono. Nelle scene successive l’intesa tra la coppia si fa più convincente, e nel supremo duetto "Tu, tu amore? Tu?!", permeato di sincera emozione, lo spettacolo decolla verso le aspettative della vigilia, ancora non del tutto soddisfatte dall’aria "In quelle trine morbide" salutata da timidi applausi nonostante l’interpretazione da grande attrice del soprano sudamericano.
Dal terzo atto, complice una tessitura più fitta e drammatica, la messa a registro delle voci è completata e un "No! Pazzo son!" di notevole intensità segna il pieno riscatto di Kunde, autore di una prestazione da qui in avanti superlativa, affiancato da una Siri in eguale stato di grazia nella superba melodia in fa minore di "Sola… perduta abbandonata, termometro implacabile, nel suo volgersi al tragico, della ‘passione disperata’ evocata da Puccini.
Una piacevolissima riscoperta è il Lescaut, fratello di Manon, impersonato dal baritono polacco Dalibor Jenis, già ben noto anche a Torino, dall’ottima presenza scenica, esuberante e ambiguo motore della vicenda a fianco del ricco esattore Geronte, ruolo nel quale parimenti emerge il bravo basso Carlo Lepore.
Tra i comprimari poco credibile ci è sembrato lo spento Edmondo di Francesco Marsiglia mentre Clarissa Leonardi, Cullen Gandy e Cristian Saitta ricoprono con piglio deciso le parti, rispettivamente, di musico, lampionaio e comandante di marina.
L’esigente pubblico torinese, elegantissimo ed educato, segue l’intera azione con trasporto crescente, inondando alla fine di applausi tutti gli interpreti, con un’ovazione speciale per i professori d’orchestra e per Noseda che, dopo l’eccellente Bohème inaugurale dello scorso ottobre, si dimostra, anche con questa sua prima Manon Lescaut, uno dei migliori, se non il migliore direttore italiano della sua generazione.
foto Ramella Giannese