La scuola di Mozart
di Francesco Lora
Die Zauberflöte con la regìa di Michieletto e le scene di Fantin passa dalla Fenice di Venezia all’Opera di Firenze. La direzione di Böer è solida nella tecnica ma lontana nello spirito, mentre i cantanti sono tutti ben integrati e con meriti individuali: da Pudova, Sadovnikova e Bolcato a Jurić, Gatell e Arduini.
FIRENZE, 25 marzo 2017 – Un anno e mezzo dopo il varo al Teatro La Fenice di Venezia (20-31 ottobre 2015), [leggi la recensione] ecco anche all’Opera di Firenze Die Zauberflöte nell’allestimento con regìa di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Carletti e video di Carmen Zimmermann e Roland Horvath. Coproduzione fortunata. Un’altra opera di Mozart, Idomeneo, andrà in scena durante il prossimo Maggio Musicale Fiorentino (ma al Teatro Manzoni di Pistoia: 26 aprile - 6 maggio), in un allestimento sguaiato, truculento e insensato dovuto agli stessi artefici e già visto al Theater an der Wien nel 2013 [leggi la recensione]. Ben diverso registro teatrale si gode invece nella ripresa del Singspiel, con le sue sei affollatissime recite (23-29 marzo) e con una locandina musicale che in parte conferma le scelte valide di Venezia, in parte dimostra l’autonomia artistica di Firenze.
Giganteggiano tuttora il programma spaziale e il virtuosismo tecnico di Fantin. Le sue meraviglie scenografiche determinano la scorrevole intelligibilità del discorso teatrale di Michieletto, che all’indagine di misteri e simboli massonici preferisce – e fa benissimo – la nuda allegoria universale. Si vede un’aula di scuola ove avviene il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, conteso tra il modello educativo di Sarastro, basato su una laica libertà di scelta, e quello della Regina della Notte, di stampo religioso e irto di censure. Si vede la cameretta bianca ove la Regina vorrebbe relegare Pamina a un’infanzia perenne, e si vede il bosco sconfinato ove l’animo si avventura, si perde ed edifica e conosce infine sé stesso. Si vede il bidello Papageno, si vede il bullo Monostatos, si vede il trio delle Dame munito di velo e tonaca, con una distribuzione-disvelamento dei ruoli che si attaglia ai personaggi con tale coerenza da escludere l’obiezione.
Con questa lettura teatrale si combinava in modo perfetto, a Venezia, quella musicale di Antonello Manacorda. Non uno scambio fruttuoso ma un accostamento innocuo si ha invece con la nuova direzione di Roland Böer. Se il Coro del MMF attraversa nei finali d’atto sorprendenti naufragi d’intonazione, l’Orchestra risulta qui un capolavoro di equilibrio timbrico e gestuale tra le sezioni. Lo stile di Böer è nondimeno quello dell’accademica postromantica mitteleuropea, non incline a comprensione e ripristino delle prassi esecutive originali, in vista di una più vivida restituzione del testo, bensì a irrigidire la partitura arcinota nella gonfia, apatica, quand’anche elegante severità del monumento. Il segno musicale obbedito nella sua letteralità grafica, così, per eccesso di reverenza si traduce addirittura in errore, come in quei tempi puntati talmente esatti nel rapporto tre a uno da risultare molli anziché solenni.
Già alla Fenice s’erano ascoltati Goran Jurić, Sarastro corposo, commosso e paterno, cui non disdice qualche arrochimento più umano che sacerdotale; Olga Pudova, Regina della Notte liquidissima nei passaggi di coloratura e adamantina nel carillon di note sopracute; Ekaterina Sadovnikova, Pamina fatta e finita a partire dalla luminosità del timbro e dalla levità dell’emissione; e Marcello Nardis, Monostatos bamboccio e petulante come la regìa qui richiede per farne un personaggio spassoso e a tutto tondo. Nuovi sono invece l’efebico e pensoso Tamino di Juan Francisco Gatell, il ragionevole e accogliente Oratore di Philip Smith, nonché il puntuale trio delle Dame, formato da Heera Bae, Cecilia Bernini e Veta Pilipenko. Per spigliatezza attoriale e prestanza canora, lusinghiero è infine il debutto di Alessio Arduini come Papageno, tanto più che al suo fianco si trova, radiosa dal canto alla figura, l’altrettanto giovane Giulia Bolcato come Papagena.
foto Simone Donati / TerraProject / contrasto