Redimere l'anatema
di Roberta Pedrotti
Con l'avvicendarsi di diversi interpreti nei tre ruoli principali, Lucia di Lammermoor trova una quadratura musicale più convincente ed equilibrata. Si conferma da archiviare senza rimpianto alcuno, se non per i denari già spesi, la nuova produzione di Lorenzo Mariani.
Leggi la recensione della prima: Bologna, Lucia di Lammermoor, 16/06/2017
BOLOGNA 21 giugno 2017 - Sarebbe comodo poter fruire l’opera per moduli a sé stanti, saggiandone ciascun elemento come indipendente dagli altri, i singoli cantanti, il direttore, l’orchestra, il coro, la regia, le scene, i costumi, le luci, le coreografie e via dicendo… Sarebbe comodo, ma anche terribilmente banale e riduttivo. Non ci si può concentrare sulla musica o sula scena, non ci si può separare una parte dal tutto e godere ( meno) di quella avulsa dal contesto. Può essere che alcuni aspetti spicchino su altri, non che se ne svincolino completamente. Così, in una Lucia di Lammermoor, cambiare i tre interpreti principali può innescare reazioni a catena che, se non rivoluzionano il mosaico complessivo, certo ne influenzano l’impatto. E, quando all’Edgardo dotatissimo, spavaldo, ma ancora in via di maturazione musicale ed espressiva, di Stefan Pop succede quello di Ho Yoon Chung, la parte dello sventurato ultimo Ravenswood assume tutto un altro respiro. Il tenore coreano, poco noto in Italia ma forte di una buona esperienza internazionale, non potrà vantare lo squillo e l’ampiezza vocale del collega, ma vince su tutta la linea quanto a musicalità e fraseggio, come proclama l'anatema del finale secondo. Chi aveva assistito alla sua recita precedente (il 17 giugno) testimonia il taglio tradizionale, ma, sia come sia, la sera del 21 le parole “ma di Dio la mano irata” si sono udite finalmente chiare e distinte. Non è questione da poco, ché il taglio non solo non ha coerenza sintattica (“Stirpe iniqua, abbominata io dove da te fuggir! Ah! vi disperda!” sarebbe una frase ben sgangherata) e suona, con quella corona inopinata sul La, come un’esplosione un tantino sopra le righe. Invece i versi completi, intonati a tempo sulla progressione abilmente predisposta da Donizetti, conferiscono all’invettiva un’incisività assai superiore, permettono al tenore di non esprimere sono una rabbia incontrollata, ma soprattutto un dolore incalzante, la naturale e fremente conseguenza delle parole “Hai tradito il Cielo e l’amor”, che possono quasi essere sussurrate, come infatti tende a fare Chung questa sera, dimostrando di saper ben intendere il senso della partitura. Allo stesso modo onora la parte e appaga lo spettatore con un buon legato, accenti appropriati, accorta gestione dinamica, soprattutto in un “Fra poco a me ricovero” davvero toccante e di gran classe. Peccato solo che, se l’orchestra è parsa generalmente molto più compatta e a fuoco rispetto alla prima, proprio in quest’aria legni e ottoni abbiano avuto i più vistosi sbandamenti.
Al fianco di Chung, partecipe e credibile anche come attore, si apprezza il debutto di Ruth Iniesta nel ruolo del titolo, sicuramente il più impegnativo finora affrontato dal giovane soprano spagnolo. Per di più, la sera precedente alla recita cui abbiamo assistito, ha dovuto sostituire rapidamente la collega indisposta: qualche momento di stanchezza, qualche suono meno morbido di quanto si potrebbe sognare è dunque più che comprensibile e siamo certi che con una maggio dimestichezza con Miss Lucia verrà anche un'ottimale gestione delle proprie forze, soprattutto in vista di "Spargi d'amaro pianto", al momento il punto per lei più arduo. Il canto d’agilità pare funzionar meglio nel più minuto e delicato canto di maniera (davvero pregevoli alcune messe di voce, così come la scelta dei colori e tutti gli abbellimenti nel cantabile) che in quello più spericolato di bravura. La grande cura del fraseggio, l’accento di “Tu vincesti… non son tanto snaturata” e la carica espressiva conferita alla cadenza della pazzia, tutta assai ben articolata, basterebbero già di per sé a sancire la qualità di un’interprete che, peraltro, ha al suo attivo anche la freschezza di una voce morbida e ben proiettata.
Più equilibrata, affine e coinvolta la coppia protagonista, tutta la recita assume un passo più convincente e compiuto, la concertazione di Mariotti risulta più fluida, più coesi tempi, dinamiche, rapporto con le voci. Anche il coro risponde più puntuale e compatto nell'Introduzione, che alla prima si era consumata con qualche disordine.
Terzo nome mutato rispetto alla prima è quello di Simone Alberghini, il quale, con una performance per certi versi parallela e speculare a quella di Marcus Werba, ci ricorda come invece l’allestimento di Lorenzo Mariani sia nato infelice e meriti senza rimpianti di sparire dopo il ciclo di recite già previsto: scene e costumi potranno esser agilmente riciclati per scopi migliori. Il basso baritono bolognese, infatti, ha temperamento e timbro più sanguigni rispetto al collega austriaco, e ciò non disdice certo all’opera romantica italiana, ma là dove Werba s’impegnava a seguire tutte le inconcludenti direttive registiche, Alberghini cerca di destreggiarsi eludendole: l’approccio sessuale nei confronti della sorella risulta senz’altro, per quanto insulso nel concetto, meno comico e più credibile, mentre altrove è chiaro che si cerchi un distacco che possa redimere, prosciugandole, le pecche dello spettacolo, ma non abbiamo che la conferma delle inesorabili secche in cui il lavoro di Mariani è destinato ad arenarsi.
Senza sorprese gli altri interpreti, Elena Traversi, Giancluca Floris e Alessandro Luciano; Evgeny Stavinsky pare più sciolto nell'emissione pur senza evitare qualche suono intubato che rende meno sciolta l'articolazione del testo.
Buona accoglienza per tutti.