Don José e i piccoli borghesi
di Andrea R. G. Pedrotti
Spicca il Don José di Luciano Ganci nella Carmen al Teatro Grande di Brescia, per il resto caratterizzata da una negazione dell'eros e della pulsione nella regia di Frédéric Roels, che trova coerente riflesso nella concertazione, tecnicamente ineccepibile, di Carlo Goldstein.
BRESCIA, 26 novembre 2017 - Ancora una produzione interessante al Teatro Grande di Brescia, la cui stagione vede come penultimo titolo in cartellone la Carmen di Bizet. Lo spettacolo andato in scena al massimo cittadino proponeva una chiave di lettura filosofica, eterea, letteraria, d’un gusto marcatamente francese, priva del gran corollario di pulsioni, erotiche e non solo, che costellano sovente le interpretazioni di Carmen.
Semplice e interessante l’impianto scenico, con alcuni pilastri grigiastri che fungevano da struttura portante della fabbrica di sigari, muri dell’osteria di Lillas Pastia, gli impervi monti rifugio degli zingari e, posti in cerchio a formare una sorta d’arena, simile al complesso di Stonehenge, per il quatto atto e l’uccisione della protagonista. In primo piano una piccola fonte, sempiternamente presente, utile per mostrare lo scorrere del sangue di Carmen, ferita a morte nel finale. Poco altro: un palo a cui legare i prigionieri nel primo atto, un piccolo palco per gli spettacoli nella taverna, un bidone infiammato per l’accampamento del terzo atto, poco o nulla nel quarto.
Registicamente ci siamo trovati innanzi all’antitesi dell’ideale zeffirelliano, con le masse ridotte al minimo indispensabile. Questo è sicuramente un elemento positivo, anche in termini di bilancio; il problema è che questo minimalismo esasperato ha coinvolto anche l’interazione fra i diversi protagonisti. Tutto procede bene fino al giungere di Carmen e, soprattutto, alla Seguidille. Non si capisce bene quale possa essere la tecnica seduttiva della sigaraia, poiché viene a mancare il necessario bombardamento pesante di impetuosi feromoni; lessicalmente, oltre a sbeffeggiare Don José senza malizia, il libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy non offre grandi spunti di seduzione, ma, dalle risposte dell’uomo (che abbandona totalmente qualsiasi freno inibitore a parole e nei fatti), ci si aspetterebbe un maggior erotismo: per un corteggiamento raffinato non c’era tempo e le endorfine, scatenate dall’impeto della trasgressione gitana, parevano in stato sostanzialmente letargico. Su questo frangente il discorso è simile anche nel secondo atto: poco coinvolgente la Chanson bohème, anche per quel che concerne una coreografia, danzata da Carmen, Frasquita e Mércédes, certamente non entusiasmante. Al contrario funzionano molto bene il quintetto “Nous avons en tête une affaire” e il concertato conclusivo.
Molto bene registicamente (sicuramente il migliore visivamente) il terzo atto: belle le luci in un coinvolgente terzetto delle carte e nel sottolineare la furia di Don José per l’abbandono di Carmen.
Qualche perplessità torna nel finale, quando la sigaraia diventa una normalissima e compassata medio-borghese, in contrasto con la psicologia complessiva di un personaggio dal carattere marcatamente maschile e profondamente cinico.
Il cast vocale ha visto affermarsi sopra tutti il Don José di Luciano Ganci, eccellente interprete e ottimo attore, rende al meglio le sfaccettature della personalità del suo personaggio, a partire da un’apparente timidezza, in realtà un’insicurezza forse legata a un legame reciprocamente morboso con la madre. Infatti Ganci manifesta maggior impeto, odio e pertinente accentazione nel minacciare Carmen, al termine del terzo atto, esattamente dopo che Micaëla gli aveva annunciato la dipartita della genitrice. Luciano Ganci convince pienamente anche dal punto di vista tecnico: bravo nelle smorzature, nella gestione dei fiati, proiettato nello squillo e preciso nell’emissione, specialmente nella zona di passaggio.
Bene la protagonista, Na’ama Goldman precisa musicalmente e abile fraseggiatrice, scenicamente si attiene con diligenza alle indicazioni registiche. Anche per lei un crescendo interpretativo, man mano che la tragedia prendeva forma.
Delude, al contrario, l’Escamillo di Zoltan Nagy, interprete anonimo cantante dall’intonazione assai precaria. Lo scarso carisma lo penalizza, considerando che il suo mestiere di toreador viene eliminato dal regista, mentre permane la caratterizzazione del tracotante sbruffone, che si presenta sulla scena, per mano con Carmen, in ciabatte e vestaglia, ossia in un atteggiamento poco da dominatore delle corride, ma più da annoiato e viziato uomo della piccola\media borghesia spagnola.
La Micaëla di Maria Teresa Leva, insufficiente per gestione del fiato, non riesce mai ad ammorbidire l’emissione, in una smorzatura o in un appoggio accettabile. La sua prova sarebbe sostanzialmente anodina, se non decidesse di abbandonare la scena mutando il dolce fraseggio della giovane in un’accentazione tipica della tradizione verista meno riuscita. Non all’altezza del testo, dell’alta caratura di uno dei più bei, coraggiosi e femminili personaggi del melodramma la sua esecuzione dell’aria “Je dis que rien ne m'épouvante”, durante la quale la giovane palesa tutto l’amore, il senso della realtà e la temerarietà di cui solo una donna sarebbe capace. Scenicamente il suo personaggio risulta anonimo.
Fra i comprimari primeggia la Frasquita di Claudia Sasso, capace di emergere in ogni assieme: il colore vocale è bello, gli acuti centrati e il fraseggio, nel limite della sua parte, ben curato ed efficace.
Buona anche la Mércèdes di Aleexeva. Convince meno il versante maschile con Davide Orsini (le Dancaire), Roberto Covatta (Remendado), Daniele Piscopo (Moralès) e Federico Benetti (Zuniga).
Inappuntabile tecnicamente la direzione di Carlo Goldstein, che consente all’orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano di portare a termine una delle sue migliori prove (assieme a Die Zauberflöte diretto da Sardelli - leggi la recensione). Qualche dubbio sorge circa l’interpretazione, che, parimenti alla regia, appare troppo virata su un versante filosofico etereo. La tendenza, molto, troppo spesso, è quella a non lasciare respiro all'orchestra e ad affrontare delle dinamiche troppo secche. Ne sono penalizzate l’Habanera, la Chanson bohème “à deux cuartos” (troppo immediata e poco modulata l’agogica), oltre all’introspezione psicologica, che rimane a un livello superficiale; infatti l’emotività disordinata di Don José si manifesta solo quando sia esplicitata dal libretto nel terzo atto. Nelle pagine precedenti, le sue pulsioni, il suo “Es”, sono appiattiti.
Della concertazione di Goldstein giovano gli stessi momenti sottolineati dalla regia: il quintetto del secondo atto e tutto il terzo, dove la linea musicale e il fraseggio risultano ampiamente soddisfacenti e appaganti.
Buona la prova del coro Operalombardia diretto da Diego Maccagnola e del coro di voci bianche Mousiké e SMIM VIDA di Cremona diretto da Raul Dominguez.
La regia era di Frédéric Roels, le scene di Bruno de Lavernère, i costumi contemporanei di Lionel Lesire, le belle luci di Laurent Castaingt, le coreografie di Sergio Simon, l’assistente alla regia Nathalie Gendrot.
L’allestimento è dell’Opéra de Rouen Normandie, in coproduzione con i teatri di Operalombardia.
foto Alessia Santambrogio