La collana di Chung: un nuovo Verdi
di Francesco Lora
Un ballo in maschera è lo spettacolo inaugurale della nuova stagione d’opera al Teatro La Fenice: in esso, il direttore coreano prosegue la più alta riflessione interpretativa intorno a Verdi oggi in essere accanto a quella di Muti. Lancio mancato per il meritevole regista Aliverta e compagnia di canto dominata da Francesco Meli come Riccardo.
VENEZIA, 1° dicembre 2017 – Si avvia alla conclusione un 2017 che ha visto Myung-Whun Chung più che mai presente nelle istituzioni-lirico sinfoniche italiane: concerti memorabili all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, e soprattutto l’intensa collaborazione – comprensiva di due paia d’allestimenti operistici per stagione: un privilegio da lui non concesso in alcuna altra parte del mondo – col Teatro alla Scala e il Teatro La Fenice. A Milano, Chung fa da ombra al direttore musicale titolare, Riccardo Chailly, con benvenute scelte artistiche complementari. A Venezia, è oggi più che mai il direttore musicale de facto, innamorato della città e delle sue maestranze. Si è così in particolare costituita, d’anno in anno, nella città lagunare, un’invidiabile collana di titoli verdiani da lui diretti: La Traviata, Rigoletto e Otello, più un Simon Boccanegra che, al ricordo, fa ancora adesso inumidire gli occhi; una collana che descrive, in modo progressivo e coerente, la più alta riflessione interpretativa intorno a Verdi oggi in essere accanto a quella di Riccardo Muti, e tanto più importante per l’essere di distinto indirizzo poetico. Essa proseguirà, si vocifera per la gioia del melomane d’alto rango, col Macbeth inaugurale della stagione 2018/19; ed è già proseguita col Ballo in maschera inaugurale della stagione attuale: cinque recite dal 24 novembre al 3 dicembre.
Con tutta la prudenza del caso, si direbbe che il materiale interpretativo di questo titolo verdiano fosse già stato anticipato nel concerto veneziano del 10 novembre, dedicato per intero alla Sinfonia n. 5 di Mahler: oggettività di pronunzia, brillantezza di timbri, capacità di condurre il discorso come nello svolgimento di un’unica arcata, virtuosismo derivante non dalla volontà d’esibire ma dalla precisione infallibile. Anche in questo Ballo in maschera Chung è campione d’equilibrio e misura, padrone tecnico d’una macchina artistica portata a giusto entusiasmo di sé; anche qui si pone non entro il rovello psicologico-drammatico, bensì al suo asciutto cospetto, con chiarezza d’intenzione e lucidità di vocabolario. Né passeranno dalla mente la foschia timbrica che guida Amelia all’orrido campo, le ebbre scintille erotiche nell’accompagnamento alla cabaletta del duetto d’amore, l’improvviso incedere bellico e sferragliante nell’esterrefatto cantabile di Renato, la morbidezza nostalgica nelle successive romanze d’Amelia stessa e Riccardo.
D’estrazione più umile è la lettura registica di Gianmaria Aliverta, inscritta in scene di Massimo Checchetto, costumi di Carlos Tieppo, luci di Fabio Barettin e coreografie di Barbara Pessina. Aliverta è un giovane artista che, a differenza di molti colleghi, conosce e ama di tutto cuore il teatro d’opera, vantando il merito d’una coraggiosa gavetta: incaricato d’inaugurare la stagione della Fenice, si auspicava per lui il lancio su un più florido circuito. Ne è invece venuto fuori uno spettacolo d’ordinaria mediocrità, dove i tratti drammaturgici personali non prendono forza sulla didascalia inerte. La trasposizione temporale dalla fine del Seicento a quella della guerra di secessione presenta, agli esiti, due Americhe non poi così differenti l’una dall’altra. V’è per esempio insinuata la riflessione sulla schiavitù abolita e su una nuova persecuzione sociale sofferta dai neri: ma il caso vuole che afro-americano sia anche il soprano protagonista, e che questa contingenza, vistosa e congrua in scena, non sia poi fruttuosamente integrata nel tema proposto.
La citata Kristian Lewis è anche l’elemento debole nella compagnia di canto. L’Aida padovana che la rivelò in Italia nove anni or sono pare oggi un ricordo colpevole di troppe speranze: l’appuntamento è con un fraseggio di desolante indolenza e con materiale svilito da un’emissione viepiù fioca, dissestata, forzata nel registro acuto e alonata in quello grave, foriera dunque di un’intonazione approssimativa. Altra cosa è il Riccardo di Francesco Meli, che vanta il timbro e il porgere di più immediata comunicativa nell’odierno contesto tenorile italiano: se qualche menda tecnica non passa inosservata – in particolare gli acuti che, cercando maggior risonanza con una maggior pressione, s’involvono invece in gola – ciò ha la relatività d’una nube davanti alla stella. L’altro vertice della locandina è reclamato da Serena Gamberoni, Oscar spigliato ed esatto quand’anche restio al trillo, e immune a qualsivoglia abusiva petulanza o leziosaggine. Correttezza tecnica e dignità signorile distinguono il baritono Vladimir Stoyanov, costituendo nel suo Renato non il vilain latente ma l’uomo d’onore e in esso tradito. Subentrata con un mese di preavviso alla più lussuosa Varduhi Abrahamyan, Silvia Beltrami si difende più che bene come Ulrica, caratterizzando e accattivando anche con i compiaciuti affondi en poitrine. Di grana vocale superiore i congiurati: Simon Lim come Samuel e Mattia Denti come Tom.