L’auto-dannazione di Faust
di Stefano Ceccarelli
L’opera d’apertura della stagione 2017/8 del Costanzi è La damnation de Faust , creatura delicatissima di un innovatore tal era Hector Berlioz. Ciò che maggiormente incuriosisce è la regia sperimentale e ardita, al solito, di Damiano Michieletto, che m’è parsa anche per lo più riuscita. Nel cast brillano la Marguerite di Veronica Simeoni e soprattutto il Méphistophélès di Alex Esposito. Daniele Gatti dirige ordinatamente, attento sì alle trame coloristiche di una partitura bellissima, ma qua e là astenico, privo di verve . Gli applausi finali suggellano il gradimento del pubblico.
ROMA, 19 dicembre 2017 – L’opera d’apertura della stagione 2017/2018 del Costanzi è certamente una scelta coraggiosa: La damnation de Faust di Hector Berlioz, opera geneticamente ambigua e assai complessa da rappresentare scenicamente. Proprio questa sua natura ibrida, infatti, viene presa a valore registico da Damiano Michieletto, che firma una regia profondamente avanguardistica: un regista che non è certo aduso al compiacimento tradizionalista del pubblico, come si sa, e che nelle idee di questa particolare regia si mostra attento alla storia scenica mitteleuropea della ricezione de La damnation de Faust .
Ma scendiamo nel dettaglio. Una regia, come dicevo, profondamente avanguardistica, a tratti volutamente disorientante: ma pur sempre affascinante. I piani temporali si mescolano: la realtà e il parto di una menta depressa, malata, si mescolano come dimensioni sì differenti, ma fino a annullarsi. Tutta la storia è trasposta in un presente senza tempo: chiare le critiche alla tecnocrazia imperante dei mezzi di comunicazione, dei social . Molta dell’interpretazione di Michieletto, poi, ruota attorno all’orwelliana paura di essere costantemente spiati. In mancanza di indicazioni precise da parte del regista, ho compreso così la storia raccontata da Michieletto. Faust è un uomo depresso, che tenta il suicidio con delle classiche pasticche. Ha problemi irrisolti col padre: padre che ritroveremo ucciso sotto la maschera del topo cantato da Brander. Tutta la vicenda è una sua allucinazione: probabilmente non si allontana dalla sua stanza. Il senso di compartecipazione per la natura viene tramutato in scene di violenza: i pastori sono dei giovani coperti da sinistre maschere. Durante la cosiddetta Marcia di Rákóczy si ricorda di quando era oggetto di bullismo a scuola (chiaramente qui l’idea nasce dall’impossibilità ad agire di Faust). Ma si ricorda anche di quando era felice con la madre: compare qui per la prima volta il suo alter ego bambino, che avrà una delicata parte nella rega. Incontra nei suoi sogni quella che probabilmente, nella realtà, è già la moglie o la compagna: Marguerite, appunto. In tutto ciò, Méphistophélès compare come una sorta di regista della folle auto-dannazione di Faust: viene dipinto quasi come un presentatore di un reality show – non siamo mai sicuri se sia realtà o finzione, giacché gira con uno staff che organizza i vari ‘viaggi’ di Faust. È senz’ombra di dubbio il demiurgo della vicenda: potrebbe essere, appunto, un parto della mente di Faust, o essere inquietantemente reale. Delle avventure fra i due, alcune scene risultano indimenticabili: quella in cui Méphistophélès crea il paradiso terrestre con proiezioni e pannelli dipinti (il paradiso del fiammingo Cranach il Vecchio) con tanto di PARADISO scritto al neon; o la scena finale, in cui l’asettica scenografia bianca si ricopre di plastica nera (a effetto blob) e Faust e Méphistophélès si imbrattano di una sorta di nero petrolio, estrinsecazione fisica della depressione di Faust. Michieletto non ci risparmia certo dalla crudezza di alcune scene, come quella fortissima di bullismo di cui è vittima Faust stesso o lo stupro di Marguerite da parte di Mephistophélès, appena dopo il suicidio di Faust. L’azione vera e propria termina proprio, infatti, col suicidio di Faust, rappresentato mediante l’inquadratura nel monitor della soggettiva del protagonista, di cui si vedono le scarpe, e i tentativi ripetuti di Margherite di sfondare una porta per salvarlo. In quel momento si comprende tutto: e un’interpretazione così marcatamente introspettiva e psicologizzante, un viaggio tutto generato da un disagio interiore, non spiace come traduzione contemporanea dello spinto sperimentalismo berlioziano.
Il tutto avviene su uno sfondo scenico assai neutro, bianco, con uno schermo al centro, cuore pulsante del non detto; sfondo che cambia solo minimamente (la scena dell’Eden e quella finale), peraltro (scene: Paolo Fantin; costumi: Carla Teti; luci: Alessandro Carletti). La regia di Michieletto, concepita senza pausa o soluzione di continuità, non lascia adito alla monotonia, proiettandoci nel turbinio della follia di Faust, fino al finale, un vero coup de théâtre : Méphistophélès cosparge Faust di una sostanza che sembra pece, emblema dell’impurità cui s’è dannato il protagonista, e lo conduce agli inferi (cioè al suicidio), scenicamente rappresentati con una cortina di plastica nera che scende dall’alto coprendo le pareti del palco. In quest’inferno plastificato, fatto di petrolio, Marguerite s’appressa a vedere la bara di Faust (quella da lui stesso scorsa all’inizio della vicenda): Michieletto risparmia dalla morte la protagonista femminile e il coro angelico a lei dedicato si risolve in un momento visivamente splendido (comparse e coro entrano in scena con candele accese, creando un effetto cromatico splendido), ma drammaturgicamente inconsistente.
Quest’eccessivamente lunga disamina della regia è necessaria per comprendere il grado di complessità dell’interpretazione di Michieletto; complessità che si può riassumere con una simbolica perdizione di un uomo comune, diviso fra piacere, autoaffermazione egoistica e amore, rappresentata con uno slittamento continuo fra realtà e simbolismo astratto biblico. Al netto di qualche aporia registica (la scena dell’evocazione dei cavalli infernali, per esempio), ho trovato ben riuscito il tutto: Michieletto rilegge spunti alle volte già visti qua e là (come il coro fisso in alto), ma lo fa con originalità.
Daniele Gatti sale nuovamente sul podio dell’Opera di Roma per dirigere la prima opera della stagione. Una lettura estremamente estetizzante, la sua, perennemente alla ricerca del bel suono. Eppure, qualcosa non va: il tutto appare, qua e là, come privo di verve . Fatti salvi alcuni momenti certamente pregevoli (la marcia ungherese, per esempio, ma non solo), la tenuta della lettura generale m’è parsa sottotono in più di un passaggio. L’orchestra, da par suo, genera un bel suono e rende giustizia a una partitura ricca di tesori e gemme. A proposito del cast, sopra tutti si erge il Méphistophélès di Alex Esposito, senza il cui cristallino talento la regia di Michieletto sarebbe stata quasi impossibile. Le doti attoriali di Esposito sono a tutti note: ma l’infinita varietà di espressioni che trae dal suo cilindro da prestigiatore sono il nerbo dell’ambiguità del diavolo berlioziano, espressioni quasi sempre immortalate dalla telecamera. Per non parlare del suo squisito gusto come interprete: una voce brunita, ben educata, morbida, gli consente accenti vastissimi nel fraseggio, non sacrificando la potenza del mezzo stesso – basti a esempio la sua aria «Une puce gentille». Il boato di approvazione agli applausi finali attesta il giusto gradimento del pubblico. Perfetta anche la Marguerite di Veronica Simeoni: la morbida turgidezza della sua corda mezzosopranile le consente di affrontare con eleganza e gusto una parte non facile, soprattutto per l’episodicità della sua comparsa in scena: la sua chanson gothique «Autrefois un roi de Thulé» e la romanza «D’amour l’ardente flamme» sono esempi perfetti della sua arte interpretativa. Faust è cantato da Pavel Černoch. Sebbene palesi ottime doti attoriali, sobbarcandosi di una regia non facile e non tagliata per qualsivoglia interprete, Černoch ha voce a tratti poco potente, in generale inficiata da un ‘vibratino’ troppo stretto, qua e là astenica, che le consente di farsi apprezzare poco in un ruolo come quello di Faust. In generale il fraseggio, talune delicatezze non certo accessorie in quel ruolo, vengono spesso sacrificate: l’arioso di sortita, per esempio, «Le vieil hivier a fait place au printemps», esce monotono e poco armonizzato con la buca, che quasi copre la voce di Černoch. Benché in qualche momento della performance , dunque, sia andata meglio, non mi sento di poter affermare che quello di Černoch sia un Faust vocalmente compiuto – diversamente, dicevo, per quanto riguarda le sue doti di attore. Buono il Brander di Goran Jurić nella sua canzone. Il coro dell’Opera di Roma, a prescindere da qualche sbavatura qua e là, porta a casa una buona serata: particolarmente riusciti l’inziale e deliziosa ronde de paysans , i canti goliardici studenteschi e il Pandaemonium finale.
Una produzione, dunque, che ha il suo nerbo nella regia di Michieletto, discutibile certo in alcuni punti, ma a mio avviso complessivamente coerente, come pure in singoli interpreti di calibro (Alex Esposito), che ne hanno consentito in fin dei conti una riuscita non scontata. Peccato per qualche momento musicale nella lettura di Gatti, pur piacevole in altri punti. Gli applausi attestano comunque il gradimento del pubblico.
foto Yasuko Kageyama