Qual notte di gioia!
di Stefano Ceccarelli
Come di consueto, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia festeggia l’arrivo del nuovo anno con un concerto di capodanno à la mode viennoise: l’intero II atto della Fledermaus di Johann Strauss jr., l’operetta di capodanno par excellence, sfrondato delle parti recitate e rimpolpato di successi straussiani e di arie da altre opere celebri. Il cast non brilla particolarmente, a eccezione di Werba. La direzione dell’esordiente Gimeno è assai gradevole: divertentissima la presenza di Neri Marcorè come voce recitante. La serata può dirsi riuscita e ben gradita al folto pubblico presente.
ROMA, 7 gennaio 2017 – Non si può iniziare l’anno senza un buon concerto, possibilmente alla moda viennese. Ecco così che l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia presenta il II atto della Fledermaus di Johann Strauss Jr., senza le parti recitate e con qualche…aria di baule in più degli interpreti. Alla testa dell’orchestra, Gustavo Gimeno, al suo debutto con l’Accademia, si fa subito apprezzare per una godibile direzione della celeberrima ouverture: gioca con l’agogica, cullandosi in strategici rallentando e ripartendo con spumeggianti e frizzanti colpi di bacchetta (soprattutto nel famoso valzer del II atto), non scadendo mai nell’ovvio o – peggio – nello stucchevole, nell’oleografico. Mantiene questa direzione dolce, vellutata, mai monotona per tutta la sera: se gli si può imputare qualcosa, è la mancanza di verve in qualche, fortunatamente raro, momento.
Il ballo in maschera a casa del principe Orlofsky, un ballo degli equivoci, dei travestimenti nei travestimenti, secondo la miglior tradizione drammatica occidentale (che ha avuto in Shakespeare, certamente, un nume rifondatore), viene narrato e ‘diretto’ dall’attore Neri Marcorè, simpatico volto del piccolo schermo e del teatro, arguto, acuto, spigliato: un ottimo ‘presentatore’ verso un pubblico che si immagina non necessariamente avvezzo a un’opera, anzi operetta, come Die Fledermaus. Ecco che, sotto le demiurgiche parole di Neri, sfilano i personaggi che lui stesso crea, raccontandoli. L’Orlofsky di Michaela Selinger è poco decadente: la sua voce, avvenente e dolce, è però poco potente e sottotono appare «Ich lade gern mir Gäste ein», come pure l’aria a sorpresa «Du sollst der Kaiser meiner Seele sein» (Der Favorit di Stolz), che comunque riesce meglio giacché la Selinger è forse più a suo agio con la tessitura sopranile. L’Adele di Sofia Fomina è spigliata, frivola: una voce chiara, malleabile ancorché poco potente, con momenti di invidiabile chiarezza – e sebbene talvolta paia svuotarsi, palesa doti eminentemente liriche. Riesce bene la frizzante «Mein Herr Marquis», assai meno la difficile aria di Olympia «Les oiseaux dans la charmille» (Les Contes d’Hoffmann di Offenbach), che richiede un ferreo controllo delle tripudianti fioriture – come seppero fare magistralmente la Serra o la Gruberova, per fare due nomi. Silvana Dussmann canta una Rosalinde agée, troppo propensa alla ricerca ostentata dell’effetto: si preoccupa, infatti, quasi solo degli acuti nella czardas «Klänge der Heimat», senza badare a talune sfumature della scrittura. Peccato, giacché il volume c’è e il timbro è tutt’altro che sfibrato. Infausta la scelta di «Quando men vo» dalla pucciniana Bohème: si perde tutta l’eterea levità sensuale della scrittura nelle spinte eccessive cui la Dussmann sottopone la scrittura pucciniana.
Il migliore sul palco è senza dubbio Markus Werba, che canta un centrato Eisenstein e fa vedere i numeri nella cavatina di Figaro dal Barbiere rossiniano, con vocalità squillante, piena, agile. Jochen Kupfer canta un argentino Falke, con voce talvolta pesante, però, e poco naturale nei passaggi di registro: dal baule tira fuori una decorosa «Scintille, diamant» da Les Contes d’Hoffmann. Completa il quadro il buon Frank di Massimo Simeoli.
A inframmezzare i numeri del II atto del Fledermaus altra musica straussiana di grido e da capodanno: la Spanischer Marsch (figlia di quell’espagnolerie modaiola e graditissima ai palati mitteleuropei!), ottima per la tenuta ritmica e la spigliatezza e l’inflazionata Unter Donner und Blitz. Particolarmente festosa, gaia, tutta la sequenza finale: «Im Feuerstrom der Reben», il canone «Brüderlein, Brüderlein und Schwesterlein» e il valzer celebre, la canzone dello champagne, «Ha, welch ein Fest, welche Nacht voll Freud», che viene bissata per il piacere del pubblico, sotto uno scroscio di plausi festanti al nuovo anno.
Foto: Musacchio & Ianniello