Mahler, spuma e magma
di Francesco Lora
La Sinfonia n. 2 di Mahler ha inaugurato la nuova stagione sinfonica del Teatro alla Scala: la perentoria idea di Daniele Gatti sa cadere con rinnovato e peculiare panneggio sul corpo delle maestranze scaligere, in formidabile assetto tecnico.
MILANO, 19 ottobre 2017 – Ben fissa alla mente è rimasta la Sinfonia n. 2 in Do minore di Mahler, “Resurrezione”, diretta da Daniele Gatti al Maggio Musicale Fiorentino 2015. L’orchestra e il coro toscani recavano in dote il metallo tipico della prima e la baldanza tipica del secondo; il concertatore avvalorò i loro caratteri idiomatici: avendo appena diretto nella stessa rassegna un Pelléas et Mélisande con voci d’oro e tutte italiane, volle anzi pure in Mahler l’inusuale, superiore canto latino di Eleonora Buratto e Sonia Ganassi [leggi la recensione]. Da un paio di settimane, Gatti e la “Resurrezione” figurano in un CD nuovo di zecca con l’Orchestra reale del Concertgebouw: una lettura perentoria in poetica e tecnica, che sancisce l’immediato tesoro discografico. Frattanto, con tre esecuzioni il 14, 16 e 19 del mese, lo stesso direttore ha aperto la stagione sinfonica del Teatro alla Scala nel segno della stessa partitura. Ecco la riconferma di un approccio così maturo, lucido e analitico da non ammettere trattative di comodo con soliste, orchestra e coro; ma ecco, insieme, l’idea direttoriale che sa cadere con rinnovato e peculiare panneggio sul diverso corpo dei nuovi compagni di viaggio.
Se ne ha dimostrazione sin dal primo attacco. In esso anche l’orchestra della Scala suona nera, poderosa, introversa, con articolazione fonda e affilata, senza indulgere alla smaltatura timbrica che farebbe da edonistica pelle sul cuore pulsante del discorso. Ma qui si apprezza come per la prima volta una colossale stanchezza psicologica, metafora del gigantesco corpo che già in esordio è estenuato dalla propria mole. Alla tensione degli archi e ai morsi degli ottoni corrisponde altrove l’incorporeo abbandono a squarci paradisiaci, vera spiritualizzazione della materia, là dove talvolta Gatti si compiace d’interrompere il gesto e lasciar andare da sola l’orchestra lungo la chiara via additata. In questo orizzonte il primo movimento della sinfonia, l’immane Todtenfeier, si configura come una macchina a sé, mentre dal movimento successivo va crescendo un discorso filato, unitario, mirato al finale canto dell’inno di Klopstock. Prodigi tecnici hanno luogo nell’Andante moderato e nello Scherzo: la colata magmatica dell’orchestra scaligera, nelle mani di Gatti, non perde la tetra densità, eppure spumeggia con libero gioco d’increspature agogiche. Quanto al Coro del Teatro alla Scala, per escursione dinamica e caleidoscopio timbrico – leggi: proprietà tecnica e privilegio culturale – è ciò che al di là delle Alpi ci si potrebbe soltanto sognare in fatto di voci. Tale convinzione si rafforza al cospetto di Miah Persson, soprano svedese, e di Christianne Stotijn, mezzosoprano olandese: entrambe ostentano curriculum d’impatto, ma né l’una né l’altra s’impone oltre l’onesta funzione, per pregio delle risorse ed elezione del porgere. Le sublimi parti solistiche della “Resurrezione”, d’altra parte, meriterebbero non d’essere disbrigate per ingaggio, bensì d’essere assegnate come un premio.