Pensieri romantici (anche sacri)
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia propone un concerto tutto romantico diretto da Vasily Petrenko. S’inizia con un omaggio di Johannes Brahms al genio di Franz Joseph Haydn, le Variazioni su un tema di Haydn op.56a per orchestra, per terminare il primo tempo con il Concerto in la minore per violoncello e orchestra op. 129 di Robert Schumann, eseguito dal talentuoso Mario Brunello; il secondo è tutto dedicato alla Sinfonia n. 5 “Riforma” in re minore op. 107 di Felix Mendelssohn Bartholdy. Petrenko inizia decisamente sottotono, ma si riprende già dal concerto schumanniano, dove Brunello dà una lezione di gusto e interpretazione, per concludere assai bene con Mendelssohn.
ROMA, 2 novembre 2017 – Un concerto tutto romantico quello proposto da Vasily Petrenko all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: Brahms, Schumann e Mendelssohn, con un’evidente anticlimax dalla maturità del movimento musicale fin quasi alla sua più spontanea realizzazione (tale mi è sempre parso, infatti, Mendelssohn).
Si inizia con un omaggio di Johannes Brahms a uno dei maestri spirituali di forma e stile della sua generazione, Franz Joseph Haydn: le Variazioni su un tema di Haydn op. 56a, primo esperimento orchestrale dopo un’ampia parentesi cameristica, che fanno di queste variazioni «i propilei alla produzione sinfonica di Brahms», come acutamente scrive Mauro Mariani (da cui continuerò a citare e più o meno implicitamente a parafrasare), in uno splendido programma di sala. L’orchestra suona d’incanto: timbriche e volumi si distinguono tersi e chiari (essenziale per rendere adeguatamente il tipo di variazione ‘barocca’ che prevede ampia libertà di manipolazione della melodia purché se ne mantengano intatti i colori e la loro progressione). Non mi ha convinto la lettura agogica di Petrenko, che definirei a tratti astenica (almeno a paragone di altre più blasonate, diciamo), certo quasi mortificante l’implicita brillantezza di alcuni passaggi: a tratti, poi, costringe l’orchestra a un velo di suono flebile, quasi inconsistente.
L’entrata del talentuoso Mario Brunello sancisce, per fortuna, un cambio di rotta. Il romanticissimo Concerto in la minore per violoncello e orchestra di Schumann riesce, infatti, assai piacevole. Merito anche del talento di Brunello, che non si esaurisce solo nella bellezza del tocco, nella morbidezza gentilmente vibrata del suono, ma penetra nell’anima della corda brunita del violoncello. Nel I tempo, infatti, Brunello ci mostra l’abilità di dipanare con senso e espressività la lunga melodia, una melopea che ben si addice a un concerto ipso facto senza soluzione di continuità: il ritmo è sempre vitale e bella risulta la lettura della «lunga melodia ondivaga e inafferrabile come i pensieri di un’anima romantica». Proprio dai pensieri romantici germoglia il II tempo, che si culla nella stasi emotiva di una «bellissima melodia liederistica, che si libra sulla delicata pulsazione delle terzine in ‘pizzicato’ dell’orchestra, raggiungendo un culmine di estatico incanto». Brunello è conseguentemente sensibilissimo ai tratti eterei della scrittura, facendo vibrare le venature brunite della corda del violoncello al servizio di una calda espressività. Petrenko segue perfettamente Brunello, l’orchestra colora e dipinge un mondo incantato che prelude agli squarci tipicamente mendelssohniani. Ho ammirato, finalmente, il piglio agogico di Petrenko nell’affrontare il III tempo, dove Brunello è messo di fronte a difficoltà diametralmente opposte alle precedenti, cioè quelle dei salti ritmici, dei balzi, della frenesia smorzata dagli interventi dell’orchestra. Buono il passaggio al chiaroscuro finale che prelude alla conclusione. Gli applausi (che dopo Brahms erano stati giustamente fiacchi) si rinfocolano e Brunello regala un bis con i suoi colleghi orchestrali: la versione, armonizzata proprio da Schumann, della Sarabanda dalla Suite n. 5 per violoncello di Bach.
Il secondo tempo è tutto dedicato a Mendelssohn: la Sinfonia n. 5 “Riforma” risuona in tutta la sua bellezza. La scelta è consona: il 31 ottobre scorso è stato infatti il cinquecentesimo anniversario dall’affissione delle tesi di Lutero al portale di Wittenberg. Petrenko ha buona mano e ci regala veramente una bella performance, rendendo giustizia alla casta ieraticità del pezzo, come pure alla ricchezza dell’invenzione melodica. È semplicemente splendido il I movimento, un inno senza parole che canta, monumentale e cerimonioso, al raggiungimento della fede, di una fede depurata della mondanità secolare, quasi una fede immediata, che fa scaturire gioia quando la s’è compresa appieno. Giustamente, Mariani ricorda come fra i critici si sia in imbarazzo nel giustificare l’eleganza del II e la squisitezza del III movimento, che potrebbero trovar posto in contesti certo meno religiosi, più profani. A me, invece, paiono perfettamente in linea con gli intenti innanzitutto estetici, ma anche logici della sinfonia. Petrenko è abile nel rendere la cristallina bellezza melodica, il pullulare di turgidezze sonore del II movimento: non posso non immaginare che questo pezzo sia la traduzione sonora dell’estatica gioia del credente ‘riformato’, che spiritualmente (ma anche, mi si passi il termine, fisicamente) gode dell’edenica pace e speranza che questo possesso della mente dona. Perché fisicamente? Perché Mendelssohn traduce nel noto linguaggio dell’idealizzazione della campagna (gli echi pastorali che ricordano tanta letteratura musicale, in tal senso, sono eloquenti di per sé) questa gioia ideale e religiosa. Nel III movimento Petrenko riesce a donare la giusta dose di screziature timbriche, di vividezza agogica: penso che questo piglio emotivo possa rappresentare un’acquisizione, una meditazione più razionale della fede, una comprensione intima e diretta della parola divina, che dona, inevitabilmente, sussulti di gioia quasi incontrollata. Nel IV, ben diretto da Petrenko nelle sue difficoltà ritmiche, nelle maglie del fugato sul corale, testimonia la fine di un percorso spirituale e razionale sul pensiero della fede: il fedele ribadisce nella sua mente che la fede ormai è salda. L’altisonante finale suggella, quindi, un percorso emotivo universale e personale al contempo, ideale certo, che ricorda i capisaldi del pensiero cristiano riformato e li traduce, splendidamente, in musica. Gli applausi avvolgono l’orchestra e il direttore.
foto Musacchio e Ianniello